Celato tra le pieghe della città che gli ha dato i natali, Neil Ollivierra è riuscito a custodire gelosamente un anonimato che oggi profuma di leggenda. Oscurato dalle innumerevoli pietre miliari che la motor city ha dispensato nel corso degli anni, tenuto in disparte nelle narrazioni, anche nelle più colte, delle vicende legate a faccende di musica elettronica in quel di Detroit.
Ad illuminarci è un’intervista fiume rilasciata nel 2013 ad ambientmusicguide, lunga confessione dove affiorano quotidianità e normalità come caratteristiche di una vita passata a dar forma ad intuizioni personali che nello specifico si sono tradotte in arte. Perché è artista chi riesce con creatività a dar forma ad una pulsione intima. Come quando ci racconta l’input che lo spinse a comporre musica.
“Mi trovavo negli uffici della Transmat, dove lavoravo in quel tempo e stavo lavorando su un nuovo database dopo che tutti se ne erano andati a casa. Era un venerdì ed alle due di notte ero ancora lì che lavoravo ed ascoltavo un’oscura compilation australiana di musica ambient-techno. Lavorare al database ed ascoltare questa musica ha fatto scattare in me qualcosa, iniziai a pensare che fosse giunto il momento di imparare a programmare i sintetizzatori…”
Leggere le dettagliate descrizioni che Ollivierra da di quel periodo e comprendere quel senso di devozione verso la sua città, verso il sacrificio che richiede viverla è sicuramente la strada migliore per comprendere la natura della sua musica. Musica che potrebbe apparire come snob, apparentemente lontana mille miglia dall’incandescente tatto che ad esempio gli Underground Resistance avevano riversato nelle loro composizioni, un parallelo che può sembrare fuorviante ma che è invece fondamentale per comprendere come la differenza non alberghi nella sostanza ma soltanto nella forma. Dirò di più, nella prospettiva.
Gli Underground Resistance partorivano musica guardando la loro città dal basso verso l’alto, The Detroit Escalator Co. ha tentato, con successo, l’esatto contrario.
Soundtrack [313] è un drone fatto decollare nel pieno della notte allo scopo di filmare la città, quando i tremori lasciano spazio al silenzio, alla solitudine, al buio, ma anche a quella patina artificiale data dalle luci della notte e da quell’irreale sensazione di pace. Ollivierra trova una codifica inusuale, sceglie la strada del dettaglio fregandosene di inviti alla guerra, di esigenze groovistiche e di rapportarsi con chiunque. Il suo lavoro più grande è stato quello di staccarsi dalla realtà, da un quotidiano opprimente, per andar a cogliere sfumature e visioni altrimenti non percepibili. Certo è influenzato molto dai suoi ascolti, sembra non esser mancato E2-E4 di Manuel Göttsching ad esempio, ma la sua forza è proprio quella di aver saputo offrire quella prospettiva differente proprio nel momento in cui tutti i suoi amici (gli storici producer di Detroit) sbandieravano quel verbo techno che raccontava in maniera fisica tanto una realtà sofferente quanto un utopico futuro.
The Detroit Escalator Co. ha scelto invece di raccontare un presente diverso, della città ha preso le mura e non gli abitanti, ha raccontato la dua Detroit facendocene assaporare il respiro quando la vita dorme. Ascoltare i suoi dischi è come sedersi in un bar e raccogliere le confessioni di un colto ubriaco, ascoltando pazientemente quei dettagli che a volte escono distorti ma che hanno il sapore genuino di chi le scarpe le ha consumate su quell’asfalto.
Soundtrack [313] è soprattutto un disco ambient meraviglioso dove è percepibile la sapienza tecnica di un produttore che ha studiato i manuali dei suoi sintetizzatori dalla prima all’ultima pagina, e dove questa può tranquillamente venir meno di fronte ad un suono avvolgente e dettagliato in grado di restituire la vista di una Detroit per una volta distante da quei riflettori che ne nascondono incantevoli particolari.
“This album is dedicated to God: The best friend i ever found (i’ll follow you anywhere), and Mau: The best friend i ever lost”