Ian O’Brien ha elaborato la complessità del jazz, della fusion e del funk cogliendo il punto d’incontro con l’elettronica più fredda e geometrica, proprio come fecero i sacerdoti di Belleville, ma qui con un tocco di sperimentazione ed originalità che và oltre la techno pura e monolitica.
Desert Score è stato il suo album d’esordio, una perla nera che il tempo ha voluto nascosta all’ombra del più conosciuto Gigantic Days, pubblicato dalla Peacefrog Records in anni di grazia ponendo di fatto in secondo piano quello che invece a mio avviso resta il suo capolavoro numero 1.
Una cosa che ha sempre caratterizzato la sua musica è quel metodo compositivo estremamente free, i suoi brani, pur partendo da strutture ben definite, finiscono poi per avventurarsi in viaggi psichedelici sull’onda filosofica di un Sun Ra per esempio.
Questo disco parte con un sentito omaggio a Detroit attraverso il brano “Mad Mike Disease”, e quegli archi angelici inondati di polvere di stelle, un viaggio autentico nella techno più calorosa ed emozionante.
Poi è l’anima stessa di O’Brien a venire fuori, e tutto assume i contorni di una fuga jazz spaziale dove il tempo è soltanto una linea attraverso la quale si alternano giochi di luce ed emozioni, calore e spettri d’ogni tipo.
Sarete trainati nella notte profonda ed oscura di “Dark Eye Tango”, e le sue pieghe vellutate che accolgono ritmo e melodia in un abbraccio dai contorni infiniti.
O’Brien è attentissimo al dettaglio ed organizza tutti i suoi strumenti in modo che suonino ipnotici e trascinanti, sempre incalzati da una ritmica che vede spartirsi i compiti tra rullante cassa e tamburi vari, percossi con delicatezza attraverso movenze sincopate.
“Dayride” è illuminante in questo senso, sono dieci minuti abbondanti di puro spleen techno, una lussureggiante suite ricca suono, tinte pastello sui bassi, un piano in grazia di Dio ed una jam cassa/rullante da pelle d’oca. Uno di quei brani che possono farti innamorare definitivamente della techno.
Ed a seguire, quell’anomalia orchestrale in chiave funk che è “The Man Fron Del Monte (A Fantasy Theme)”, altra gigantografia seventy che la dice lunga sul grado di preparazione dell’uomo chiamato poi a compilare la famosa serie degli “Abstract Funk Theory”.
Si fa fatica a credere che dopo due album simili si siano perse quasi del tutto le tracce di questo musicista che forse ha preferito mantenere una certa distanza dallo star business che contempla molti degli ex eroi della prima generazione techno.
Noi non dimentichiamo e siamo sempre alla finestra ad aspettare.