Facciamo un piccolo passo indietro, chiamiamolo “Earth & Nightfall”, 1995 R&S Records.
Una foto in copertina, anonima o poco più, un volto serio, concentrato, malignamente attribuibile ad un singer sudamericano, non so il Ricky Martin di turno per esempio, un nome che da subito venne scambiato con quello del più conosciuto Joey Beltram.
Cos’altro avrebbe potuto nascondere un disco simile?
Ebbene, dentro v’era nascosto il paradiso. Un’autentica suite per genuini techno-lover, con tutte quelle meraviglie che fino ad allora potevamo attribuire ad una casta ben circoscritta ubicata in quel nevragico centro musicale nel sud del Michigan.
Anche John Beltran proviene dal Michigan, ma questo lo scoprii soltanto anni dopo, e per lungo tempo figurò nella mia mente più come un’ entità che come una persona in carne ed ossa.
“Earth & Nightfall” era sicuramente uno di quegli irripetibili errori che generano l’eccezione, John Beltran non avrebbe mai potuto farlo ancora.
1996, era passato soltanto un anno, Peacefrog Records, ok potete cominciare a tremare, “Ten Days Of Blue” arrivò lasciandosi dietro una scia infuocata.
John Beltran l’aveva fatto di nuovo.
Si passò da dubbio a certezza in un batter d’occhio, “Flex” è la forza di una balestra che lancia frecce a ripetizione, un carico di electro inzuppata d’alcool che solca cieli arrossati dal calore del sole, disegnando con fotografica memoria il tramonto sopra Detroit.
Beltran era un fiume in piena e la sua musica poesia, appoggiandosi più volte al suono della chitarra ha dichiarato il suo amore per l’ambient scrivendo pezzi come “Collage Of Dream” o “Guitaris Breeze (6000 KM To Amsterdam)” dispiegando lunghissimi tappeti dove ritmica dal sapore etnico, synth e chitarra conversano come tre buoni amici che ricordano il passato di fronte ad una bottiglia di vino.
In un commento apparso qualche anno fa su internet un utente esordisce così:
“This is the only album i have on 4 audio carriers: cd(for downstairs), vinyl (for upstairs), md (for train) and cassette (for car)”
…potrebbe sembrare esagerato, ma questo è totalmente comprensibile, “Ten Days Of Blue” sa soltanto farsi amare, raggiungendo vette emotive quasi inarrivabili, che nella travolgente ballata che dà appunto il titolo all’album lasciano intravedere una forma canzone pressoché perfetta, una sorta di Carl Craig che dirige un’orchestra di angeli, ma credo ogni paragone suoni inutile quando la classe è pura e cristallina come in questo caso.
Il disco muta in continuazione, ma anche nei cambi di rotta più marcati, come ad esempio nell’irruenta “Venim And Wonder” Beltran riesce a proporzionare le parti in maniera che a contorno della potentissima base techno siano presenti elementi che guidano la mente verso un orizzonte pacifico.
In “Deluge” prosegue dritto accompagnandosi di nuovo ad un loop di chitarra che crea una parata minimale infinita, interrotta soltanto nel finale da un’epica chiusura di piano che tradotta in termini è il paradiso sceso sulla terra.
“Soft Summer” è semplicemente una canzone stupenda, una serie di vibrazioni su un tema ambient che scivola via in un turbine d’emozioni rappresentate con altrettante pennellate che attingono ad una tavolozza pregna di colori dai toni caldi e seducenti.
La sua musica è scritta tenendo bene a mente che la techno non è una musica che banalmente nasce per far ballare le persone, la techno è cuore ed anima, può avere le forme più differenti, racconta storie che prendono vita nella mente, ha ricordo, vive ed è capace di entrare negli angoli più bui, stimolando sensazioni che potremmo non saper d’avere.
Quel che è diventato poi John Beltran è l’insipiegabile storia dei nostri giorni, ma di fronte a tutto ciò direi che è un dettaglio tranquillamente trascurabile.