Muta arrivò in un momento storico nel quale a Roma creatività e sperimentazione abbondavano ed era quindi lecito intraprendere qualsiasi strada. Un vanto anche il fatto che per questo motivo tutti ci osservavano. Da Detroit a Londra a Francoforte gli occhi erano puntati sulla città eterna perché i battiti vitali della scena sotterranea trasmettevano ininterrottamente le loro vibrazioni nei paralleli e nei meridiani più insperati.
Leo Anibaldi può esser visto come l’altro profilo di un volto diviso con Lory D. Non se la prendano tutti gli altri, e sono molti, ma un veloce scatto fotografico della scena romana dei primi anni novanta (quella produttiva, inteso) avrebbe impresso dapprima i loro volti.
Un percorso parallelo quello dei due, ma molto distante nel modo di intendere la musica. Di Lory abbiamo già parlato descrivendo le gesta del suo album Antisystem, Leo è cosa diversa.
Cresce ascoltando i dischi di Cerrone ed Herbie Hancock e nei primissimi ’90, supportato dalla ACV di Tony Verde mette a segno un dodici pollici intitolato provocatoriamente Italian House, tre brani che mettono a nudo tutto il suo talento, espresso nella marcia acida di House e nello splendido staccato deep di Elements.
Da non sottovalutare anche un progetto portato avanti insieme a Cesare Cerulli ed al compianto Claudio Pascucci dal titolo Blue Zone (nome probabilmente ereditato dalla discoteca Blue Zone di Palestrina), una serie di dodici pollici pieni di grazia che strizzavano l’occhio alla musica di Chicago che all’epoca era una grande influenza per tutto il panorama.
Dopo questa fase di rodaggio Leo ha trovato la strada, un percorso chiamato solitudine. Finito il tempo dei giochi era ora di chiudere il cerchio intorno all’intima idea, a quel sogno chiamato musica che da tempo cercava di uscire in una forma personale e distintiva.
Era il 1992 quando Possession ed Acid Perversion si alzarono in volo nei cieli di Roma per dispensare il loro carico di acide emozioni, ma forse il brano che lo condusse nei cervelli di gente come Grant Wilson ed Aphex Twin fu senza dubbio Ritmicida, una furia assassina che sputò fuori tutta la rabbia e la voglia di sperimentare di una generazione. Un brano che rimarrà per sempre Il Brano.
Questo vinile fu il preambolo dell’album, sempre per ACV, intitolato The Virtual Language, un disco dove il brano d’apertura The Story Become tradì un aria di cambiamento, Leo sembrava essersi liberato del ferro e del fuoco per celebrare il cielo e le stelle. Un episodio isolato dicemmo allora, perché il resto dell’album riservò di nuovo tutta una serie di scatti rubati alla violenza ed alla voglia di lasciar intendere il proprio ideale di Techno.
Ancora una manciata di dodici pollici, nei quali emerge senza dubbio quel grandissimo esempio di techno che è Nothing Has Changed, un disco che suonarlo oggi farebbe impallidire tre quarti della Berlino bene che sventola ferraglia credendo di innovare ed altri incredibili brani come Ice Man o Attack Random, musica che avvicinò Roma a forme espressive extra terrestri in un equilibrio magico tra groove e sperimentazione che rimane il punto fermo della musica di quella generazione.
Poi arrivò Muta.
“Il disco è stato registrato a casa mia per poi passare alla produzione in studio, non ho mai avuto un fonico o qualcuno che mi aiutasse nella fase creativa, sono sempre stato da solo.”
Ok non c’è da stupirsi nel leggere queste parole, ascoltando il disco in questione non si potrebbe immaginare gestazione diversa.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Siamo nel 1993, un anno a dir poco cruciale per Roma, Leo consegna un DAT con incisi nove brani alla ACV, la quale non ci pensò due volte a pubblicarlo sia in formato CD che in doppio vinile. Il primo contenente tutti e nove i pezzi mentre il secondo con un brano in meno.
“…ricordo che la tiratura delle stampe si aggirasse intorno alle 12000 copie”
Questa poi fa venire i brividi, un disco di questa complessità stampato in numeri oggi impensabili (se non a livello mainstream) ed ormai rarissimo, quindi venduto, quindi acquistato e metabolizzato da un numero considerevole di persone.
Veniamo alla musica. I brani, nove, tutti numerati in modo sequenziale, senza titoli, divisi sulla versione in vinile tra brani senza ritmo e brani con.
La prima impressione è quella di un collegamento con quell’input lanciato nel primo brano di Virtual Language, ma in maniera diversa, questa volta utilizzando suoni ancora più oscuri ed in qualche modo imperniati in una narrazione quasi gotica.
“Utilizzai diverse macchine che avevo a disposizione all’epoca, synth analogici come il Jupiter 6, l’Oberheim Epander e la Roland TB-303, e qualche analog drum machine come la Roland TR-909, TR-808, TR-606, TR-707”
Ascoltare quella musica fu qualcosa di spiazzante, profondo, viscerale. Le melodie sembravano cercare un contatto con l’aldilà, c’erano accordi mistici, suoni rituali e battiti che spingevano verso il basso, una strana, sinistra energia che fece scendere la notte. L’album è un racconto che trova la sua massima espressione nella versione cd, nella quale i brani sono disposti in un ordine ben ragionato che in una visione d’insieme appare come un racconto dalle mille sfumature. E’ il distacco dal groove, un intimo e personale lasso temporale nel quale Leo ha descritto in maniera cinematica i suoi fantasmi. Nel 1993 di quali potessero essere i riferimenti non ne avevo idea, era semplicemente musica nuova, mai ascoltata prima, musica che ti apriva un mondo, oggi, a distanza di oltre 24 anni posso ben dire che tale potrebbe rimanere, perché potrei star a vivisezionare alcuni impulsi chiamando in causa Steve Roach in alcuni passaggi tribali, Robert Rich o Lustmord per alcune ambientazioni o ancora trovare dei parallelismi con i primi lavori di Acid Kirk, ma credo che oltre ogni supposizione sia più giusto affermare che Leo Anibaldi abbia dato vita ad un suono originale, personale, introspettivo.
“Scelsi il nome Muta perché volevo lasciar intendere proprio qualcosa da indossare, una muta per immergersi nel mio mondo musicale. La musica arrivò in maniera del tutto naturale perché quella era la direzione esatta che volevo prendere, volevo creare degli ambienti sonori.”
Ci riuscì, nei primi quattro brani dell’album è espresso un immaginario incredibile di idee e soluzioni melodiche che misero a nudo tutta la classe ed il talento dell’uomo.
Dal quinto brano in poi le tenebre cominciano ad assaporare il battito. Leo lascia partire un escalation ritmica forsennata tornando ad inserire elementi acidi, suoni industriali ed altre schegge luminose. Dopo un paio di minuti Muta 5 esplode, un ritmo scomposto, tribale e vorace, una programmazione impeccabile su un corpo nero.
Muta 6 è il contatto definitivo con la techno in quella declinazione acida e sinistra che è il vero DNA di Leo Anibaldi, cassa in quattro, contraccolpo fuori asse e la bassline a dettare legge in mezzo a sporcizia e detriti. Muta 7 è acid techno dal groove robotico e minimale, un motore ritmico fatto di funk bianco che scorre in tutte le vene, Detroit e Roma in una fusione allucinatoria.
Muta 8 ci catapulta in un downtempo speziato con un giro di basso vigoroso e due contrapposti assoli, il primo acidulo e pungente, il secondo un raddoppio morbido e sinuoso. Muta 9 è di nuovo li a graffiare con uno strambo brano techno sperimentale tutto echi, suoni oscuri, fraseggi metallici altre derive aliene che lasciò intendere quanto il futuro fosse a portata di mano e mise il punto su un album che possiamo definire, senza esitazione, un capolavoro.
Volevate sapere cos’è stata Roma?