Sicuramente uno dei dischi più attesi dell’anno questo quinto album in studio di Theo Parrish, che manca appunto sulla lunga durata dal duemiladieci, anno in cui pubblicò Sketches, attenzione salita alle stelle anche per la sempre crescente fama dell’artista in primo luogo come Dj, le sue performance ai giradischi infatti assumono giorno dopo giorno un livello di maturità difficilmente raggiungibile da chiunque altro. I suoi set, specialmente quelli più lunghi, sono delle vere e proprie esperienze di vita capaci di rapirti cervello, anima e corpo completamente.
American Intelligence (questo il titolo dell’album), pubblicato per la sua Sound Signature, è stato preceduto da un singolo al solito intenso e magmatico intitolato Footwork, poi inserito come brano di apertura sulla versione vinilica che contiene nove brani, contro i quindici della versione su doppio cd.
Una parentesi inevitabile circa il prezzo con il quale il lavoro viene venduto al pubblico (siamo intorno ai 45 euro per il triplo vinile, 30 per il doppio cd), rispetto alla media per prodotti analoghi ci sono 10 euro di sovrapprezzo che stanno generando non poche critiche in giro per la rete. Oggettivamente un prezzo importante, compensato in parte dal fatto, vinile alla mano, che il disco suona in una maniera incredibile, segno che in fase di produzione, masterizzazione ed incisione si è lavorato col fine unico di creare un prodotto di estrema qualità.
Interesse, per chi scrive, raddoppiato anche dalla sublime esperienza vissuta lo scorso 28 giugno in quel di Foligno durante la nona edizione del Dancity Festival, prima tappa ufficiale del tour di presentazione dell’album da parte di Theo Parrish, che presentatosi con una band di dieci elementi (sei musicisti e quattro danzatori) ha dato vita ad un concerto entusiasmante, eseguendo dal vivo alcuni dei brani contenuti nell’album stesso.
American Intelligence è un disco che ci consegna un codice di lettura esaustivo della personalità del suo autore, una caratteristica importantissima, perché è sempre più raro ascoltare della musica che somigli in modo sincero alla vita di chi le ha dato vita, esperienza che finora avevamo potuto assaporare soltanto nei clubs durante i suoi Dj set.
Ad aprire l’album, dicevamo, è Footwork, brano dedicato all’omonimo ballo, un pezzo crudo nel quale una ritmica robotica fatta sostanzialmente di cymbals fa da base ad un vocale sussurrato che recita “Let me see your Footwork…” mentre man mano si aggiungono elementi come il suono di un organo elettrico, battiti di mani, altre percussioni ed un ruggente giro di basso che fa il mimo al ritornello vocale. Un pezzo che nella sua semplicità è in grado di sprigionare un urgente senso di appartenenza ad un movimento, oltre che rappresentare l’esigenza di utilizzare il ballo come mezzo in grado di aiutarci a dar sfogo alle nostre pulsioni più intime.
In Cypher Delight, secondo brano in scaletta, sempre sul lato A, il minimalismo ritmico viene spinto all’eccesso, qui è un gioco tra cymbals, cassa, tamburo e claps, un ritmo apparentemente primitivo ma che a ben vedere è frutto più di istanze afroamericane che africane, c’è tutta la scienza del jazz unita al sangue del funk per circa otto minuti di trance garantiti e certificati. Il messaggio del primo lato sembra proprio volerci consigliare di utilizzare il ballo come strumento per elevarci e liberarci da quanto ci opprime e chiude mentalmente.
Il secondo lato è occupato per dieci minuti da Ah, una ballata crepuscolare con un duetto paradisiaco tra le corde del basso di Duminie DePorres e la voce melodiosa di Ideeyah, un’esperienza soul in purezza alla quale si aggiungono leggiadri un tappeto elettrico e degli accordi di chitarra che sembrano intervenire in maniera chirurgica per operare delle rifiniture che puntano alla perfezione. Non c’è beat, ma un cuore gonfio che sembra voler esplodere. A seguire, e solo li poteva stare, troviamo Creepcake, un affare a due tra quello che sembra un Fender Rhodes ed una cassa effettata e ripetuta con precisione metronomica. Un lato religioso, questo vien da pensare, è come se il gospel venisse qui ridotto all’osso senza però esser privato della sua potenza liberatoria.
Make No War inaugura il secondo vinile ed è un esplosione di groove con un campione vocale preso da The Vibes Is Right incredibile brano soul pubblicato nel 1985 dall’artista reggae jamaicano Barrington Levy. Qui è espresso il concetto di house music da sempre portato avanti da Theo, quello di un flusso ricco e stratificato che tenti in ogni modo di suonare organico e sporco come il funk, ed è già bello immaginare il “nostro” mentre lo mixa in uno dei suoi set modulandone di continuo l’equalizzazione per farci saltare la testa in aria! Sempre sul lato C la bomba definitiva, Drive, qui il ritmo torna a trovare una traiettoria più dritta e cupa, per assurdo un brano techno con la creatività del jazz e la potenza del funk, un battito deep, il vocal ruggente, il basso in parata ed altri strati di ritmo ad intavolare un’epica battaglia con conseguenze disastrose per le nostre gambe.
I restanti tre brani occupano un lato ciascuno, si inizia con Fallen Funk sulla facciata D, un assolo di batteria devastante punteggiato dalle tastiere e dagli inserti di basso prende la scena come una cascata di magma incandescente, la scrittura è anche qui minimale ed efficacissima, la qualità dell’incisione garantisce un effetto live a tutto vigore, dopo la metà il suono del basso diventa prepotente e vorticoso, poi entra la voce e scaraventa via tutto. Eccovi servito il funk.
Be In Yo Self, terzo vinile e secondo feat con DePorres e Ideeyah in un’orgiastica jam che segna una fusione perfetta di tutti gli elementi orchestrali quali batteria, basso, chitarra, tastiere e voce, qui è possibile cogliere tutta la summa delle fascinazioni del suono afroamericano, una sintesi perfetta di funk e soul con degli accorgimenti geniali come innesti di cassa contro tempo o affondi di chitarra elettrica a testimoniare lo stato di grazia del produttore detroitiano.
Helmut Lampshade è il brano di chiusura, un viaggio tra incroci di basso, piano elettrico e piattini con il primo in una jam solitaria nelle inesplorate vie dello spazio, ad ampio raggio sono visibili Sun Ra, Bernie Worrell, Art Blakey e James Jamerson, e noi a prender schiaffi dal primo all’ultimo minuto.
Musica che va ben oltre l’urgenza di fare album per essere “presenti”, questo è un disco maturato negli anni, il risultato di un’equazione complessa che ora possiamo chiamare manifesto, diverso e più maturo da tutto quanto Parrish avesse tentato prima, un nuovo tassello che ne solidifica le coordinate anche sotto l’aspetto produttivo. Se potete cercate di farlo vostro.