La londinese Lobster Theremin, label di ottimo livello capitanata da Jimmy Asquith, dopo aver presentato una serie di interessanti Ep che hanno coperto ad ampio raggio gli scenari techno, house ed ambient ci propongono in questa chiusura d’anno un LP il cui press sheet si presenta senza dubbio interessante.
Storia vuole che Asquith scopre questo disco navigando nella rete, Chicago Jim (questo il titolo ed il nome dell’autore) è stato infatti pubblicato originariamente nel 2012 in un numero limitatissimo di cassette e CD-r vendute perlopiù nella città di Chicago, dove l’artista sembra aver avuto i natali. Asquith non ci pensa su due volte, contatta la label ed ottiene i diritti per stampare l’album su doppio vinile.
Nel momento in cui scriviamo non possiamo far altro che prender per buona la pittoresca storia, ma poco conta, avremmo speso grandi parole anche senza alcun preambolo, perché la musica contenuta in questo album è di assoluta qualità.
Undici brani che prendono il titolo della posizione occupata all’interno del vinile, e, tolti i tre intramezzi da due minuti sui quali mi soffermerò dopo, ne rimangono otto pronti a descrivere una Chicago riflessiva e malinconica attraverso un suono che rappresenta il lato più intimo e futuristico dell’house music. Uno degli aspetti ad emergere sin dal primo ascolto è che, nonostante i brani siano tutti dancefloor oriented, la cura riservata alla scelta dei suoni e delle tonalità, oltre che alla composizione delle melodie, vanno a comporre un disco che si distacca dalle native vibrazioni autoctone della windy city per aprirsi a scenari techno ed ambient che guardano al futuro.
Lo avvertiamo sin dal brano d’apertura, uno strambo ritmo alieno sul quale intercorrono linee di bassline contorte che trovano poi un commovente assetto quando subentra il tappeto melodico. Sulla programmazione delle ritmiche siamo forse più vicini a certa techno di Detroit, quella più complessa e votata all’estetica sci-fi di artisti come Drexciya o del Kenny Larkin della prima ora.
Ma l’album è di per se molto vario, come può dimostrare il terzo brano A3, altro commovente scorcio melodico messo in piedi suonando due note di tastiera e scrivendo una linea di basso che nonostante il piglio minimale riesce ad infondere un senso di calore e magia, qui la base ritmica è deep house, con pochi suoni ben distinti che regalano emozioni a non finire.
Tornerei per un momento su quei tre anfratti di circa due minuti ciascuno, trascurabili per alcuni, essenziali, a mio avviso, per capire il sentimento di esplorazione che pervade il lavoro, piccole istantanee che colgono Chicago Jim perso in un sogno che ci lascia intravedere esistenze parallele in altri mondi. Sono giochi di sintetizzatori, modulazioni senza appiglio che ci regalano un suono sospeso ed inafferrabile, un suono dove ognuno di noi immagina un successivo sviluppo, perché l’esigenza che si crea è quella di sentirle suonare per un tempo assai più lungo.
Ed inoltre sono un perfetto bilanciamento all’interno di un album che ha comunque un cuore house pulsante, vivo, erede di quella Chicago più accostabile al Ron Trent di Aliens piuttosto che alle frustate groovistiche della prima ora. Difficilissimo entrare in contatto con dischi house così visionari ed intensi di questi tempi, caratteristiche che ci fanno sospettare qualche veterano celato dietro questo pseudonimo, qualcuno che ha assorbito l’house per decenni e che è in grado di manipolare con estrema padronanza le drum machines ed i sintetizzatori scrivendo dei brani complessi, stratificati e con un cuore soul che pompa sangue al cervello aiutandolo a spingersi oltre. Difficilmente verremo colpiti presto da un nuovo asteroide di questa portata, un disco importantissimo.
La splendida cover fotografica che riprende una Chicago vista dall’alto è opera dello stesso artista, e nel gatefold saranno inserite altre immagini stampate che completano l’opera regalandogli una meritata casa.