Strano come alcuni album riescano ad evitare ogni sorta di raggiro mediatico sfuggendo ai tradizionali canali di diffusione, strano ed allo stesso tempo molto rischioso, perché ad esempio questo disco dell’esordiente Philipp Priebe sarebbe passato completamente inosservato se non lo avessi intercettato in una session di ricerca avanzata su Discogs.
Album di debutto per l’artista a me totalmente sconosciuto, mentre la label (IL Y A Records) è giunta ormai alla quinta release, CD in un’edizione destinata al mercato giapponese.
Un disco sorprendente se pensiamo al debutto di un giovane producer (1987), una scatola house dal cuore deep che contiene nove brani originali e due remix, una scrittura fluida e personale che cerca la differenza nella cura dei dettagli piuttosto che sulle stesure, queste ultime forti di un classicismo deep che potremmo ritrovare in produzioni targate Dial o Mule Musiq.
Sono quindi i dettagli il vero valore aggiunto, Priebe intavola una “discussione” aperta con la natura, saccheggiando numerosi piccoli recordings che inserisce ad ampio spettro in tutti i brani apportando un’estetica bucolica ricca d’eleganza.
Le cose diventano dannatamente serie quando il pathos diventa notturno, in Deep Chrome Canyons, un brano semplice quanto letale, un’andatura 4/4 cadenzata da un inserto dal sapore metallico e da un pad accennato che diventa ben presto melodia unendosi ad umori sotterranei che evocano un vociare sommesso. Un brano incantevole.
Evoca spettri tribali omaggiando l’house music con il groove trascinante di Take Care che alterna campioni vocali a percussioni e sparse note di pianoforte. Affonda la lama nei bassi rotolanti di Reflection, altro grandioso brano deep con i piatti della batteria a scorrazzare liberi su una macchina sonora nell’insieme futuristica. In The Being Of The Beautiful torna a calcare la mano sulla melodia in uno struggente sogno dance che proprio nel mezzo si ferma per mutare in un serpente acido brillante e violento.
Glowing è una macchina dub che torna all’essenza e con pochi elementi mette insieme un groove che suona da Dio. Mentre in Ice Mountain, l’ultimo dei brani originali, il dialogo è tra i piattini e le percussioni legnose che attrezzano un ritmo minimale montato su un tappeto volante ambient sinuoso.
Suona come il duro lavoro di un artigiano intento a perfezionare la sua arte, nulla è lasciato al caso né nella costruzione del ritmo, né in quella melodica. Sul primo sono eccezionali le sovrapposizioni (anche di elementi non prettamente percussivi) ma che nell’insieme riescono a creare un’architettura complessa all’orecchio ma estremamente intuitiva per le gambe, mentre sulle melodie prevale un assetto proveniente dall’ambient che fa uso di tappeti lunghi ed accordi molto semplici dal sapore malinconico.
Anche i due remix in chiusura, rispettivamente di Steffen Kirchhoff e Lorin Strohm, ricalcano con perfezione la natura dell’album stesso.
Verrebbe da dire un romantico, perché questa è musica dance che può far innamorare, musica che della nativa house music prende il cuore e non il corpo, un debutto che suona già maturo, una bellissima sorpresa.