Tutto e il contrario di tutto. Un concetto ripetutamente impresso tra le pieghe della discografia di Sasu Ripatti, artista prolifico e dai molteplici monicker: uno per ogni incarnazione sonora. Con caratteristiche precise, peculiari. Dall’alba del nuovo secolo, il finlandese si è cimentato con generi quali dub, glitch, house, techno, senza tralasciare le recenti sperimentazioni tra avanguardia e jazz in compagnia di amici e musicisti di spessore.
Uusitalo, AGF/Delay con la moglie Antye Greie, Luomo, Sistol, Moritz Von Oswald Trio e Vladislav Delay Quartet: nessun progetto è lasciato al caso. Ognuno racchiude un frammenti d’anima e stille d’arte contemporanea. Percorsi ben canalizzati da alcune etichette (BPitch Control, Halo Cyan Records, Honest Jon’s Records), tra cui l’attenta Raster-Noton, pronta ad accogliere Vladislav Delay, il più noto e ambizioso pseudonimo di Sasu Ripatti, nel suo roster. Release quali “Vantaa” (2011) e “Kuopio” (2012) hanno reimposto con vigore quel Vladislav Delay al centro dell’attenzione. Scanalature matematiche, rarefazioni ambient e improvvisazioni soniche gli assi portanti di un sound in continuo divenire. Lo stesso può essere distrutto e ricostruito più volte. Visa (2014) ne è l’esempio: sei movimenti come viatico alla noia del quotidiano. Su cui s’innesta un’elettronica senza forma, valvola di sfogo per canalizzare un’ulteriore frustrazione accumulata.
L’album, a partire dal titolo, nasce come reazione alla mancata (e ancora ingiustificata) concessione del visto che avrebbe permesso a Sasu Ripatti di calcare il suolo a stelle e strisce per esibirsi all’Unsound Festival di New York i primi di aprile 2014. Il tempo negato alla performance oltreoceano gli ha permesso di concentrarsi su nuovi materiali, sviluppando differenti soluzioni per condensare immaginazione e musica. Idee tradotte in beat, forse, poco raffinati, seppur liberi da ogni obiettivo di sorta. Derivanti da miriade di apparecchiature in gran parte modulari, ricorrendo solo a qualche piccolo ritocco digitale nelle fasi di missaggio e post-produzione. Toni caldi per suite austere, che riprendono un discorso interrotto con “Demon(s) Tracks” (2004).
La fascinazione di “Visa” si riflette, quindi, in una totale libertà compositiva e tecnica. Dissonanze a sciami, field recordings grezzi e battiti fugaci. L’ambient sporco come la neve ed echi glitch in secondo piano. Melodie che tardano a manifestarsi a pieno.
Al notturno metropolitano dell’opener Viisari si contrappone la grandiosità tragica di Visaton, divisa in due parti tra lato A e B, per oltre venti minuti tra dismessi drone e frammenti atmosferici. Un’impalcatura apparentemente fragile, ma coraggiosa. Capace di resistere alle vibrazioni di Viaton sul lato C, dalle trame profonde, marchio di fabbrica di un artista dai vari registri. È la crescente, nonché perenne, attesa di qualcosa a non dare tregua. Una condizione che destabilizza l’ascolto.
Come le voci in lontananza di Vihollinen o i soffocati tremolii di Viimeinen sul lato D. Non c’è alcun intento organico, ma è assente anche il silenzio.
“Visa” nasce e cresce in luci e ombre. Alterna semplicità a complessità. Codifica intimità ed estro.