“I Grennhouse Studios sono un luogo stupendo di calma e creatività. Ogni momento della giornata acquisisce tempi diversi dove la concentrazione sul suono è totale. Lo studio dispone di mezzi e strumenti pazzeschi. Quando sono arrivato in Islanda, la struttura portante dei pezzi era già stata sviluppata e così ho lavorato di cesello con Valgeir Sigurðsson per arrivare alla forma pre-mix”.
Il freddo dell’inverno in Kazakhstan, il fascino dell’altra Reykjavik, una valigia di suoni da fare e disfare. I viaggi di lavoro nell’ex repubblica sovietica e una trasferta ad hoc nella terra dei ghiacciai: realizzare “Fingers” (2014) non è stato facile. Pubblicato lo scorso autunno, l’album è il capolinea di un certo percorso artistico intrapreso da Alberto Boccardi, ambizioso soundscaper giramondo.
“Fingers” ha avuto una genesi lunga e complessa: nasce da un desiderio di relazione con altri musicisti e dalla voglia di adottare un approccio elettronico con strumenti acustici. Credevo, e fortemente credo, che la distanza tra acustico ed elettronico non sia nei mezzi utilizzati, ma nella composizione, perché è importante perdersi nella fonte sonora senza identificare la sorgente”.
L’omonimo “Alberto Boccardi” e lo split con Lawrence English: correva l’anno 2012. Drone e field recordings, avventure e respiri. Le partecipazione alle compilation “Postcards From Italy”, come membro del collettivo Archivio Italiano Paesaggi Sonori (AIPS), e “Dronegazers”, come ulteriori biglietti da visita, estratti con cura da una custodia vellutata e pronti per essere distribuiti.
“L’esperienza porta un po’ di consapevolezza. Se il primo disco suona molto istintivo, “Fingers” appare più ragionato e costruito, in quanto naturale evoluzione di un percorso iniziato già anni fa. Ciò mi ha portato a capire cosa m’interessa sviluppare. Sono piccoli gradini di fiducia e consapevolezza che, poco a poco, costruiscono l’intero impianto della tua musica”.
Sin dal titolo, “Fingers” rimanda a una dimensione tendenzialmente meno votata al digitale e più analogica, più reale, realizzata dal vivo. Ricorrere a differenti linguaggi musicali un’esigenza concreta. Così come il contatto con gli strumenti, utili per riprodurre creatività a strati. Non solo loop ipnotici, ma soluzioni complesse, affatto improvvisate da un’orchestra di altrui dita.
“Il nuovo album è materico e terreno e questa è la visione principale con cui ho lavorato all’inizio. Non avevo una vera e propria idea ma, semplicemente, delle bozze, dei quadretti; tutto si è chiarito strada facendo: dalle collaborazioni, dal materiale che si accumulava, dall’ambiente circostante. La mia intenzione era lavorare anche sull’ambito spettrale e sulla completezza del suono”.
La profondità delle sette tracce del produttore lombardo è dovuta alla partecipazione di diversi musicisti, le cui idee sono state altrettanto riprocessate in note. Un elenco lungo che, in ordine alfabetico, va da Adele Pappalardo a Paolo Mongardi, senza dimenticare i contributi di Antonio Bertoni, Eloisa Manera, Luca Rampini, Lucy Wilson, Matteo Bennici, Maurizio Abate e Nicola Ratti.
“All’inizio, non avevo le idee chiare, per cui è stato normale aver risentito dell’influenza dei singoli musicisti. Ed è stato proprio per questo che ho cercato alcuni di loro: sapevo che ciò che avrebbero proposto, magari in seguito a un mio abbozzo, sarebbe stato utile a capire la strada da percorrere insieme. Lasciarsi influenzare dagli altri può portarti in territori a cui non arriveresti mai da solo”.
L’opener Where You Are, Where We Are è un fraseggio tra arpeggiatori e batteria, su cui s’inseriscono flebili note di pianoforte. L’uscita dal cono d’ombra è garantita dall’azione combinata di un motore a lungo scoppiettante e l’improvviso inserirsi dei cori sacri di Laying Again. Una differente spiritualità è insita in Piano Memory Ground, per attimi di raccoglimento in chiave di violoncello.
Una nuova serie di vocalizzi nella nebbia delimita il precipizio ambient di Red Fingers. Una manciata d’asperità digitali prima dei tribalismi e dei sussurri d’archi della placida All Her Grains. Ogni frammento ha in nuce di una propria carica emozionale: i droni elettrici di Nine Steps… l’opportuna premessa al gran finale di … And You Will Ask Me Some Water. Lo smarrimento è totale.
Una dilatazione sonora amorfa, la cui residua tensione è interrotta dall’ultima voce femminile di un album che lesina omaggi al minimalismo classico rileggendolo, però, attraverso la forza della contemporaneità. Due, infine, i supporti per far propria l’implosione interiore di “Fingers”, definitiva conferma del talento di Alberto Boccardi, perché rilasciato sia su cassetta che su cd.
“John Brien di Important Records mi propose l’uscita in tape per la serie Cassauna. Ero molto contento, perché è un’etichetta prestigiosa, ma volevo che uscisse anche su un altro formato. Contemporaneamente fui contattato dalla Monotype: il lavoro era piaciuto molto. A entrambi andava bene la doppia uscita visto che sono in due continenti diversi e quindi non c’era concorrenza. Riascoltando l’album ora, mi rendo sempre più conto che la pasta del suono sulla cassetta conferisce al lavoro una profondità completamente diversa. Si tratta di un ascolto molto interessante, che porta in superficie nuovi elementi, ma non completamente esaustivo. Al contrario, su cd, i suoni sono sembrano più definiti. In sostanza, penso che siano due ascolti complementari”.