Il titolo è già da se testimonianza di un basso profilo che sarà poi la chiave di lettura di un modo di porsi che vuole scansare sin da subito facili entusiasmi e pomposi proclami.
Jamal Moss è un musicista imprevedibile. Chicagoano, mente dietro la Mathematics Records, ha esplorato ogni forma espressiva della dance, dall’acid house alla techno, sperimentando sulle timbriche, sui ritmi e sugli stili che di volta in volta ha tirato in ballo. E la sperimentazione è proprio il fulcro del suo modo di fare musica. Una discografia ampissima nella quale non mancano dischi di difficile comprensione, una ciambella non sempre riuscita con il buco che nell’insieme ci mostra un produttore mai fermo su se stesso, capace di osare e di prendersi sempre la responsabilità del rischio.
La Rvng Intl. dalla sua è una label che invece non sta sbagliando nulla, ogni release è attesa con religiosa aspettativa, ed è giusto dirlo, questa loro visione così ampia e focalizzata sulla qualità è un valore aggiunto che gli permette di cogliere sempre i frutti migliori.
We Are Not The First è il risultato dell’incontro tra alcuni grandi musicisti ed almeno un paio di visionari: Jamal Moss e Marshall Allen. Del primo avete letto poche righe sopra, il secondo è un artista talmente “alto” che provar a riassumere in poche parole sarebbe impossibile per chiunque, vi basti pensare che è un sassofonista americano nato nel 1924 nel Kentucky ed è conosciuto ai più per aver abbracciato nel lontano 1950 la filosofia dell’immenso Sun Ra dedicando poi la sua intera vita all’Arkestra, trainando ancora oggi in giro per il mondo il peso della leggenda.
Tremo ancora al ricordo della loro performance dello scorso anno in quel di Sutri, terminata cantando Space Is The Place in mezzo al pubblico in delirio.
Il resto della band è composto dal multistrumentista Daniel Carter (sassofono, flauto, clarinetto e tromba), dal batterista Greg Fox, dalla superba interpretazione vocale di Shelley Hirsch, da Shahzad Ismaily alla chitarra ed al basso, da Elliott Levin (flauto e sax), dai sintetizzatori modulari di Ben Vida ed ancora delle narrazioni vocali di Rafael Sanchez.
Le session di registrazione sono state effettuate a Brooklyn nel giro di un weekend, e non credo potesse essere diversamente, vista la caratura degli artisti ipotizzare un periodo più lungo nel quale trovarsi tutti insieme nello stesso posto è cosa praticamente impossibile.
Sono moltissimi i musicisti che nel corso dei decenni hanno dato il loro contributo ad una forma sonora afrofuturista, è un concetto talmente ampio che potrebbe risultare ridicolo racchiuderlo, come molti tendono a fare in un movimento distinto. L’Africa ha dato i natali a tanta di quella musica che verrebbe da dire che tutto ciò che ne è conseguito è di fatto afrofuturismo.
In questo meraviglioso album invece succede qualcosa di inaspettato, ha preso forma un insperato equilibrio ed una forma comunicativa semplice. Il vero miracolo è proprio questo, perché sono pronto a scommettere che qualsiasi altro ensemble riunito per un weekend a liberare musica “free” nel senso più puro del termine, presenti poi un insieme finale convulso, pieno di individualismi fini a se stessi e col grosso rischio di risultare in tutto e per tutto inutile. Quel che si è venuto a creare invece in questo album è qualcosa di assolutamente magico, non mancano partiture arcigne, come è ovvio che sia, ma i vari individualismi hanno trovato la propria funzione all’interno dell’insieme.
Fondamentalmente parliamo di jazz libero che flirta con l’elettronica di stampo techno ed ambient, con quest’ultima che ricopre il grande ruolo direzionale, impartendo coordinate che vanno dal soundtrack lisergico di Civilization That Is Dying con la voce della Hirsch ad incarnarsi tra le pieghe di un background freejazz spaziale, alla dance acida di Cybernetics Is An Old Science, che è in tutto e per tutto un brano techno-jazz che trova negli assoli di sax il suo ascensore verso la spiritualità incontaminata.
Brain Damage ne prosegue le gesta unendo il robotico ritmo della techno ad una serie di improvvisazioni al sax che controbilanciano il programmatico ritmo. Three Days More è una strana forma dove è di nuovo magia vocale, dove le corde della chitarra irrompono metalliche, dove la batteria è il vero elemento alieno. Fuck The Ghetto / Think About Outer Space racchiude nel titolo la sua natura. Pensate all’house, copritela di fango e poi speditela nello spazio. E’ incredibile anche come a livello melodico e di arrangiamenti tutto risulti (fermo restando la natura libera dell’album) comprensibile e per alcuni versi umano, come nel caso di Universe Is A Simulation che unisce un verme acidulo alla calma narrativa del sassofono.
Pussy Thumper è un brano ambient ancora centratissimo, con un connubio perfetto tra elettronica e strumenti acustici.
Il quarto lato è una jam da quasi 19 minuti dove ad incontrarsi sono flauto, sassofono, tromba, batteria, chitarra e l’elettronica di Moss e Vida, ne viene fuori la cosa più “viva” dell’intero album, è proprio un flusso vitale quello al quale assistiamo, con tutti i musicisti a creare un fitto sottobosco di personalità che messe insieme trovano traguardo in un pezzo che oltre a dare il titolo all’album lascia trasparire i corpi e le menti di questo progetto destinato a segnare il tempo perché dimostra senza possibilità di replica quanto la techno ed il jazz siano figlie dello stesso padre e come quest’ultimo sappia incarnare allo stesso tempo passato, presente e futuro.