La base del disco è assolutamente live: deriva da registrazioni per uno spettacolo di danza contemporanea, “Moto Perpetuo”, realizzato insieme alla danzatrice e coreografa Anna Basti. L’intenzione era quella di pubblicare l’album così come eseguito dal vivo ma, considerata la breve durata, ho iniziato a lavorarci in studio, sviluppandone altre parti.
La prima impressione è quella che conta. “Black Body Radiation” (2015) il volto nascosto di un Giano bifronte. Non il gemello diverso di “Ruins” (2014) ma, forse, il suo lato meno caotico. Forte di nuove idee, Franz Rosati ritorna un anno dopo la sua ultima fatica solista, consegnando ad Anacleto Vitolo e Vincenzo Nava della manyfeetunder un lavoro tanto compatto quanto sorprendente.
È strano che il disco sia percepito come meno caotico rispetto il precedente, più immediato e grezzo. Paradossalmente, c’è stato anche un lavoro di composizione più lungo per “Ruins”. Circa le differenze tra i due, non credo si possa parlare di una mia ‘crescita’: preferisco pensare a un cambiamento continuo accompagnato da un approfondimento costante.
Di sicuro, l’esperienza con Anna Basti mi ha spinto a indagare un lato del mio lavoro, legato a sonorità più morbide e melodiche, cui prima avevo approcciato in altro modo. Gli strumenti di cui mi sono servito sono, però, rimasti ibridi: il software Honegumi la base, ma sono numerose le ibridazioni provenienti dal nuovo setup che non prevede più l’uso del laptop.
Il titolo “Black Body Radiation” trae diretta ispirazione dall’omonimo fenomeno elettromagnetico, cioè la cessione di energia alla materia che si manifesta all’interno o che circonda un corpo in equilibrio termodinamico, o emessa da un corpo nero, opaco e non riflettente, tenuto a temperatura costante. Lo spettro e l’intensità della radiazione dipendono così dalla sola temperatura del corpo.
Il concept da laboratorio di fisica trova una potenziale spiegazione nella particolare struttura delle tracce, colme di un’ansia elettrica latente, pronta a re-irradiarsi in cambi di marcia fino a deflagrare in vere e proprie esplosioni sonore. Un album dall’impatto intelligente, che va oltre i generi classici dell’elettronica sperimentale contemporanea e, soprattutto, in grado di plasmare diverse atmosfere.
Non credo di aver mai fatto davvero noise. M’interessano la sensazione di incompletezza, quella prospettiva eterea priva di landmark precisi seppur vagamente intuibili, e i passaggi di stato. Ritengo che questa sia l’unica musica che possa realizzare senza trovarmi a pensare ‘ma che cazzo sto facendo’. Non so se sto per esplodere, ma vivo un momento di forte cambiamento.
Il processo di produzione musicale subisce l’ascendenza del quotidiano. È raro ascoltare qualcosa e aver voglia di ‘rifarla’. Per motivi d’imprinting, emergono influenze più o meno evidenti nella mia opera. Allo stesso tempo, fare musica non è un’operazione catartica, tale da esternare qualcosa di mio. Eppure ciò non vuol dire che rifugga dagli aspetti emotivi.
Vivere in una città come Roma, dove si passa dal caos estremo alla quiete della natura alla Caffarella, m’influenza altrettanto. Stesso discorso il territorio: rovine antiche, costruzioni contemporanee, palazzi mutilati. Da qui nasce, forse, una predisposizione allo stratificare e al diversificare il suono, anziché ragionare sulle singolarità timbriche e tematiche.
Scosse senza grida ed echi distanti. Tensione crescente oltre la saturazione del drone. L’opener Strain Tensor condensa una vasta gamma di stati d’animo in nitido contrasto. Il produttore e visual artist romano è, però, abile nel controllare, o dosare, il tasso di potenza della traccia: con una piccola pausa, collocata a metà, la successiva ripartenza è travolgente. Non sono ammessi mezzi termini.
Un battito febbricitante attraversa Zero Point Strategy. Misteriosa, ondivaga e, soprattutto, marziale nell’incedere: i suoni campionati dalla vita di tutti i giorni sono alternati ad altri materiali sonici per un crescendo senza tregua. Ancora più obliqua Angular Distorsion, una sorta di divagazione dal retroterra noise concettuale abilmente incastrata tra bordoni distratti e sibili stridenti.
Una manciata di colpi in rapida successione scandiscono il ritmo di Transition Metal (Slow Light), o l’occasione per prendere fiato prima di un’autentica tempesta di click ed esplosioni ravvicinate. Momenti di raccoglimento abbozzati e improvvise accelerazioni metalliche rappresentano al meglio la summa del parziale cambiamento di direzione intrapreso dell’artista.
Quintessence è, invece, il brano dai toni più cinematografici, con un parziale recupero di sonorità ambient. Brividi dissonanti, note di pianoforte e l’inquietudine di una perturbazione ad alta densità sullo sfondo per quasi sette minuti di durata, nient’altro che l’ottimo preludio alla conclusiva Heat-Death Of The Universe. Un indelicato rumore per provare a perdere l’udito.