K.lust è l’ennesimo soprannome che utilizzo. Una scelta dovuta, perché volevo che fosse l’evoluzione di K.lone, anche se quest’ultimo è abbastanza lontano come approccio musicale. Non era mia intenzione aggiungerne un altro ma, allo stesso tempo, mi sembrava incoerente ricorrere ad AV-K. La ‘k’ sta sempre per Kletus. Un feticcio, un portafortuna, un continuum.
Il progetto di Anacleto Vitolo nasce con intenzioni ben precise: raccogliere un’eredità di secoli fa e adattarla alla contemporaneità. Laddove sperimentazione fa rima con accelerazione. E, soprattutto, è il concetto di ripetitività ad assumere un ruolo centrale. Non a caso, le avanguardie sembrano essere, in fondo, più legate alla musica antica, piuttosto che a quella propriamente romantica.
Nell’arco di un biennio, tramite diversi alias e dischi, l’istrionico produttore campano ha avuto modo di affermarsi sempre di più all’interno della nicchia drone tricolore, ma è con “Liven” (2016), rilasciato dalla Stochastic Resonance, che prova a chiudere il primo cerchio della sua carriera, tra vecchio e nuovo, a cominciare dalla immagine primordiale, struggente simbolo del suo lavoro.
La copertina è altamente simbolica, frutto di un’idea su cui ho lavorato con Scual, il grafico dell’etichetta. La fotografia rimanda alla Venere di Willendorf, una statuetta steatopiga del paleolitico. I concetti alla base del disco sono il tribalismo e la circolarità dei cicli vitali, quindi, anche dei suoni che, spesso, hanno accompagnato una serie di riti ancestrali.
Le attività di una tribù erano scandite dai ritmi diversi. Tramandata da padre in figlio per via orale, la musica regolava le dinamiche di vita sociale. La ripetizione di un gesto, così come di una nota, aiutava il singolo ad abbandonare una coscienza individuale a favore di stati di euforia o trance di gruppo. La ciclicità una conseguenza, specie se rapportata anche al mutare delle stagioni.
Le sei tracce di K.lust cercano d’interpretare una simile condizione. In circa cinquanta minuti di durata, pulsioni incalzanti e frenetiche percussioni si sovrappongono a trame essenziali: il retroterra non è solo minimale, ma fortemente ermetico, se non, addirittura, spirituale. In buona sostanza, “Liven”, una singolare eccezione nel catalogo dell’etichetta romana, è un album anche istintivo.
L’avvio è esplosivo: la title-track è di quelle a cui è difficile non prestare attenzione. La progressione sonora si snoda nell’arco di sette minuti. Bassi impetuosi, atmosfera estatica, percussioni senza tregua. I nuovi tribalismi techno non si esauriscono qui. Da un punto di vista prettamente emotivo, la seguente Rite è, forse, meno travolgente, ma altrettanto ipnotica.
A luci spente, subentra Wheel. Un brano energico che trova il suo equilibrio nella circolarità del suono. Rotondo. Forse, addirittura, potenziale ascolto per un dancefloor di nicchia. L’abilità di K.lust giace anche nella scelta di inserire al suo interno un paio di pause e di ripartenze ad hoc per mantenere alta la temperatura. Shove, in tal senso, è un ulteriore tentativo di rallentamento.
Il rischio è farsi ingannare dalla sua divagazione ambient, soltanto un altro break per prendere fiato. L’escursione melodica Sweep la migliore via di fuga dal convulso “Liven”. Una volta rilasciato tutto il suo calore, i battiti tornano a zero. Meno calda e avvolgente la conclusiva Motion che, invece, punta forte su clap ripetitive e trame schizofreniche. Istantanea della vita di tutti i giorni.
In fin dei conti, “Liven” è un disco parecchio ‘fisico’. Sono rimasto colpito dalla risposta del pubblico, specie da parte di chi non è avvezzo al genere. Tutto ciò che realizzo spero possa avere se,pre una dimensione live. Mi auguro di esibirmi ancora con quest’ultimo progetto perché, nel recente passato, è stato quasi ‘più facile’ presentarmi in giro con quelli più cupi.