Io e Anacleto Vitolo, di cui conoscevo già il lavoro, ci siamo incontrati per la prima volta l’anno scorso, quando sono stato a Napoli e Avellino per due date di promozione del cd “Forget About Any Non-Gray” (2015), stampato dalla sua manyfeetunder/concrete. La sintonia tra noi è stata immediata. Dopodiché è stato spontaneo interrogarci sul fare qualcosa insieme.
Lui ex cantante punk, io ex batterista metal. Entrambi, però, innamorati del minimalismo e della musica colta. E, soprattutto, legati da un rapporto d’amicizia che, a mio avviso, resta il valore aggiunto. “Zolfo” è ciò che sento più vicino alla mia attuale concezione sonora e, nonostante un modus operandi diverso, con Gianluca Favaron si è creato un gran feeling.
Dal latino sulfur, lo zolfo è l’elemento chimico con simbolo S nella tavola periodica. È un metallo inodore, insapore, di colore giallo intenso, presente sotto forma di solfuri e solfati in altri minerali. Lo zolfo si usa in vari processi industriali, dalla produzione di polvere da sparo alla vulcanizzazione della gomma, come fertilizzante ed è persino al centro di un curioso rimedio popolare ligure.
Un elemento essenziale gli esseri viventi: duro, dalla varie forme e dalle molteplici combinazioni. Tre caratteristiche proprie anche della musica di Gianluca Favaron e Anacleto Vitolo. “Zolfo” (2016) è il risultato finale di una collaborazione a distanza, tanto proficua quanto ardita. L’album, pubblicato dalle 13 con la partecipazione di manyfeetunder, è un concentrato di sperimentazione.
O meglio, un’esplorazione ai confini dell’elettronica contemporanea. Nell’arco di cinque mesi, i due musicisti, dalle disparate esperienze pregresse, hanno fatto ricorso a vari strumenti per mettere a punto il loro primo lavoro di coppia: cassette, oggetti, microfoni, percussioni ed effetti analogici e digitali. La conciliazione tra questi due mondi è possibile. La potenza espressiva grande.
L’album prende il via con Starting Point. La partenza è tutta in salita. Confusa, disomogenea. Un breve monito per i successivi trenta e oltre minuti di musica: guai a ritenerla tale. Varie, infatti, le soluzioni ordite dalla coppia di artisti. Singolari certe divagazioni. La travolgente title-track impatta subito dopo e, in una manciata di secondi, alza la posta in gioco. La saturazione è totale.
Infrasound impone, per fortuna, una piccola pausa. Elettroacustica. Il debordante flusso sonoro è ora incanalato all’interno di un’architettura flessibile, con fruscii e segnali intermittenti. Gli stessi sono in primo piano durante la prima parte di Discourse 12 ma, lentamente, lasciano spazio a nuove energie in divenire. Trance indotta. Notevole l’alternanza glitch tra silenzi iniziali e rumori finali.
In punta dei piedi, la frammentata Fold-In cresce in intensità. I battiti si susseguono costanti, senza condurre a un vero e proprio approdo, prima d’interrompersi sul più bello. Reflection contiene, invece, un pulviscolo di suoni. Dall’accumulo di tensioni latenti allo sferragliare della conclusione. Oblivion, con annesso field recording, non passa inosservata. Tanto strisciante quanto alienante.
“Zolfo” riflette inevitabilmente i mondi di tutti e due, quindi dentro c’è un po’ quello che ci piace: dalla musica concreta al noise, dai droni all’elettroacustica. Il tutto è stato, ovviamente, ricombinato secondo i gusti personali, cercando di trovare l’alchimia giusta per un album che, pur rispecchiando sia il mio approccio che quello di Anacleto Vitolo, fosse anche originale.
Il rischio di questo tipo di lavori è, spesso, esser fin troppo monocorde. Dal mio punto di vista, ho provato a essere molto più ‘concreto’ e dinamico del solito, sintetico anche nella durata dei brani, con Gianluca Favaron pronto a tagliare droni in odor di Tim Hecker. Per questo, oltre il materiale, ci siamo anche scambiati i ruoli. La mia visione delle cose è maturata.