Quella di Hendrik Weber è la classica storia del ragazzo cresciuto a “pane e My Bloody Valentine “, convertito poi all’elettronica dalla voglia di assaporare scenari diversi dalla fede indie-rock che l’ha cullato in tenera età.
Un passato che è servito a introdurlo alla musica nella forma migliore, facendolo interessare alle strumentazioni tradizionali, focalizzandone lo studio nell’utilizzo della chitarra.
Non male davvero, perché ormai è fatto certo che l’attuale appiattimento stilistico dell’elettronica deriva per l’80% dalla mancanza pressoché totale di alcuna nozione sull’arte della composizione e dell’arrangiamento da parte dell’oceanica folla di producer presenti sul mercato.
Weber ha perseguito una vera e propria ricerca d’identità, impegnandosi nell’intento di far quadrare il cerchio nella vastità illimitata di questo mondo che ha cominciato a scoprire pian piano.
Fondamentale fu la pubblicazione, sotto pseudonimo “Glühen 4”, dal titolo “Das Schweigen der Sirenen”, edita dalla validissima “Dial”, che sempre ha creduto nelle sue doti. Fondamentale, perché l’album suonò veramente brutto, e servì a distogliere completamente il giovane Hendrik dalla sana voglia di sperimentazione che lo pervadeva, curioso com’era di cimentarsi in un ibrido abstract noise che sfortunatamente non ebbe nulla da raccontare.
Però la strada andava ormai delineandosi: una spiccata propensione alle ritmiche dance (ampiamente certificata in precedenti uscite come “Diamond Daze” o “Lichten/Walden” ), un sano background rock e un’eccentrica voglia di sperimentare.
Cos’è allora “This Bliss”?
“This Bliss” è il risultato, che per ora chiameremo fortunato (aspettando con ansia i suoi prossimi lavori) della costanza di un ragazzo che ha molto da dire. E’ un disco che suona techno nel senso più classico del termine, e che fa emozionare come solo la techno sa fare. E’ il disco dei ricordi, di quella nostalgia che si può avere pensando a un vecchio “LFO” o a un’ispiratissimo Carl Craig, come potrebbe essere “Landcruising”.
Ma, attenzione, non vi vedremo cadere in un banale come eravamo, Pantha du Prince conosce lo stato dell’arte della musica dance moderna, e non è nel suo interesse cadere nel baratro dei revival. Ve ne accorgerete già dalla superba traccia d’apertura, “Asha”, che intona la sua melodia su un covo di lucenti echi dub, innalzati al cielo da dolci riverberi metallici. Con la successiva “Saturn Strobe” potreste aver bisogno dei fresh n’clean per asciugarvi le lacrime, e avrete già piena cognizione di trovarvi di fronte a un gran disco, aggiungendo l’aggettivo epico quando vi troverete a descriverne la melodia ai vostri amici.
“Walden2” è un’esposizione sonora di 10 minuti accompagnati da un tintinnio armonioso di campanelli e da una pianola suonata con lo stomaco in vibrare, lasciando poi spazio al primo mezzo passo falso del disco, ovvero “Moonstruck”. Non che sia una traccia priva di qualità o mal congegnata, ma di certo, con i suoi riff crudi e ruvidi, vi farà uscire controvoglia da quel binario sonoro fin’ora assaporato.
A dire il vero, per trovarci di nuovo di fronte a qualcosa di veramente interessante, bisogna aspettare la traccia numero 8, “Florac”, dove il nostro sembra quasi “Green Velvet” che suona l’organo in una chiesa presbiteriana di Chicago. “Steiner im Flug” è l’ultima fatica degna di nota, un saluto quasi dispiaciuto, che suona romantico a cavallo di quella cassa che molto ha preso da tanta deep-house americana.
In definitiva, la sensazione è che un Lp o un mini-album ci avrebbe visti piangere, seduti di fronte alla nostra collezione di dischi, buttando lo sguardo qua e là, tra quelle copertine che da sole ci accendono il fuoco dentro, senza dover pensare a quell’assurdo riempimento che a fatica ci tira fuori la sufficienza. Ma quello che c’è di buono, vale da solo l’acquisto.