Cercare di raccontare un disco è sempre difficile: la musica, in quanto tale, è fatta per essere ascoltata e per suscitare emozioni, e, solo in quest’ottica, può ricevere apprezzamenti e critiche. Raccontare un disco è difficile, dunque, e lo è ancor di più quando ci si trova di fronte a progetti come questi ben lontani dall’avere quello sviluppo lineare, ordinario e spesso ripetitivo a cui, purtroppo, siamo abituati.
“23 seconds” è frutto del lavoro di tre menti molto diverse tra loro: Matthew Johnson , Tyger Dhula e Danuel Tate. Se per il primo basta ricordare “Marionette” e la costante presenza negli ultimi 2 e più anni anni nei migliori club europei e statunitensi, il secondo e il terzo provengono dagli ambienti del jazz e della musica che, qualcuno chiama ancora, “colta”. Ambiente che, grazie all’improvvisazione che spesso si sviluppa durante le jam session, permette ai musicisti di sviluppare una capacità del tutto unica nella creazione di sonorità e ritmiche. E cosi è stato anche nell’album: mentre a Mathew Johnson toccava il compito di elaborare i loop e sviluppare le bassline, Danuel Tate si occupava del vocoder e dell’organo Rhodes e Tyger Dhula elaborava atmosfere e percussioni.
E se ci aggiungiamo a questo la magica atmosfera in bilico tra Stati Uniti e Europa che solo un paese come il Canada può offrire, il risultato, vi assicuro, è uno dei migliori album sentiti in questi ultimi tempi.
Come dicevamo nella realizzazione dell’album, cosi come nelle performance live che i tre stanno portando in giro con successo in mezzo mondo, l’improvvisazione l’ha fatta da padrona dando vita a un continuo intrecciarsi di suoni deep, elementi jazz e una sottile e quanto mai raffinata cassa techno percepile per tutto l’album. Si viaggia nel mezzo, dunque, non tanto da meritare solo un ascolto e non abbastanza da alzarsi in piedi a ballare.
Dentro “23 seconds” è possibile trovare di tutto e riconoscere di tutto: i minimalismi e il funk destrutturato di Matthew Johnson in “Hired Touch”, “Lime In Da Coconut” e “23 Seconds”, le sonorità deep di “Change Your Apesuit” e quelle provenienti da Detroit di “Hired Touch” e “PDB” accompagnata per tutta la sua durata da eccezionali eclettismi jazz. Eclettismi che la fanno da padrona anche nella bella “Slap the bass” prendendo il sopravvento sulla bassline che accompagna l’intera traccia. E ancora la calma rilassante di “Waiting Room” e gli accenni acidi e il vocoder di “W”, gli intrecci e la progressione di “Saturday night” e “Peace Offering” pezzo che forse più di tutti è in grado di rappresentare l’intero album.
Qualcuno ce l’ha fatta:lo strappo che periodicamente pare venga a crearsi tra musica elettronica e jazz è di nuovo ricucito. Tanto è stato fatto in passato dalle parti di Detroit con capolavori con caratteristiche simili a quelle di “23 seconds” e tanto si potrà fare se i Cobblestone Jazz continueranno su questa strada senza farsi prendere dal desiderio di finire su qualche squallida compilation di qualche fashion bar di Parigi.