Mi sono innamorato di Matthew Herbert nella metà degli anni ’90, quando, ed ormai ne ho la certezza quasi assoluta, l’uomo ascoltava con l’orecchio di uno studente le pionieristiche soluzioni di personaggi come Richie Hawtin e Daniel Bell. Quando pensò che l’house potesse trarre vantaggio da quelle straordinare frequenze minimali che i due andavano sottraendo alla techno, quando con “100 lbs” proclamò il suo pensiero a riguardo, facendo sì che la scintilla prendesse finalmente fuoco.
Il problema, ormai rivelatosi agli occhi di tutti, è che quel fuoco non è poi stato controllato a dovere, con il risultato che molti degli originari piromani ne sono rimasti purtroppo scottati.
La musica di Herbert è poi inevitabilmente mutata, e l’assurdo sarebbe stato sicuramente il contrario, visto l’ardore con il quale l’artista ha sempre convissuto. Ora Matthew Herbert è un musicista diverso, e sicuramente il suo bacino di utenza mutato. Molti dei suoi pseudonimi deceduti da tempo, vedi Dr. Rockit o Wishmountain… ed anche la speranza di riascoltarlo sotto le spoglie di un seducente propinatore di techno music d’avanguardia è concreta come la fine delle ostilità in medioriente.
Quello su cui, però, voglio porre l’accento, è il fatto che, si, la musica di Matthew Herbert è cambiata, ma nella forma e non nella sostanza.
La Big Band è stata dapprima un esperimento, la voglia di cimentarsi in qualcosa di più rischioso, gestire un’intera orchestra, pensate al cambiamento per uno che fino ad allora era stato soltanto un menestrello del campionatore. L’esperimento fu brillante. “Goodbye Swingtime”, questo il titolo, riuscì a render merito alle scelte, un disco impegnato che unì a meraviglia le orchestrazioni con la componente elettronica, trovando nella melodia la sua arma vincente. Quello che forse non apparteneva totalmente ad Herbert in quel disco, era una certa staticità, qualcosa che ho sempre faticato a riconoscere “sua”.
”There’s Me and There’s You” giunge proprio a colmare quel “gap”, introducendo nuove dinamiche alla natura puramente jazzistica del concept.
Forte di un ensemble di musicisti di gran qualità, Herbert mette insieme 12 brani esaltando ogni passaggio, muovendosi in quel territorio jazz con comprovata disinvoltura, ed inserendo inoltre numerosi richiami che vanno dalle composizioni teatrali anni ’40 allo Swing.
Quel che continua ad affascinarmi oltre ogni scelta stilistica, è il suo uso delle partiture elettroniche. Detriti e schegge impazzite di campionamenti vari, inseriti a meraviglia tra le righe del pentagramma. Cambi di ritmo improvvisi, tappeti ambient ed accelerazioni ritmiche ovunque, insomma quel che ha reso grande ai nostri occhi Matthew Herbert è sempre lì, vivo e vegeto.
Certo non mi vede entusiasta come un tempo, ma la certezza di poter ancora comprendere la sua musica continua a pervadermi.