Intanto partiamo dalla pronuncia del suo nome d’arte, che genera abitualmente dubbi e storpiature di ogni tipo: la pronuncia corretta di Seuil è l’equivalente fonetico del sostantivo francese “feuille”, scelto per avere un nome che suonasse francese, lui che a diciotto anni ha deciso di trasferirsi dall’isola di La Réunion (isola francese situata nell’Oceano Indiano) al caos metropolitano e alle mille luci di Parigi.
L’album di debutto “Chamealeonidae” presenta dieci tracce costruite sulla medesima struttura ritmica, ovvero abili e ripetuti intrecci di percussioni e linee di basso sempre incalzanti che tuttavia risultano avvincenti con rarissime cadute di tono. Ritmi piuttosto lenti, grooves spesso intricati ma sempre riusciti e ben sviluppati.
Se il titolo dell’album allude alla capacità di adattarsi e attingere a diversi stili e alle molteplici influenze presenti nell’album (lo stesso Seuil ha dichiarato di aver effettuato durante le registrazioni ascolti in dosi abbondanti di soul, funk e disco), “Chamealeonidae” è essenzialmente un album il cui suono risulta costantemente in bilico tra house e jazz, costruito coniugando brillantemente gli elementi tipici della house ad elementi tipici della tradizione jazz quali, ad esempio, l’improvvisazione e l’attitudine alla sperimentazione. Ne deriva una forma musicale moderna che pone l’accento su timbri e groove (piuttosto che sulle melodie) in dieci tracce che si mischiano una dentro l’altra come una lunga session o un unico lungo mix.
Tra gli episodi che vale la pena citare, sicuramente i due “Interlune”: più orientato verso sonorità jazz il primo, un ipotetico ponte tra Lfo e Detroit il secondo. E ancora, i suoni techno-robotici di “Together” e il free jazz di “Saxy”.
Quanto ai contributi vocali dell’album, entrambi forniti dal misterioso Jaw, sembrano azzeccati pur senza incidere in modo particolare, ad eccezione della conclusiva “Rue Sainte Marie”, eccellente deep house di atmosfera da centellinare, così come l’intero album.