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Arandel In D

Arandel In D

Arriva dal nulla questo/a Arandel, un remix su “Dust” di Agoria, poi il silenzio, fino a questo In D, un album addirittura e che album.
Naturalmente è già aperta la caccia alle streghe in giro per l’Europa, ed è totalmente comprensibile vista la caratura di questo disco chiedersi chi si celi veramente dietro la sua identità.

Una sola foto gira per il web e mostra una figura con il volto coperto da una maschera ed un cappuccio.
In D esce proprio per la label di Agoria, la Infinè, ed è un album bellissimo, un gioiello minimale che si destreggia tra l’house più raffinata, delicatissime melodie classiche ed una serie di costruzioni ritmiche sottili quanto intricate.
Già dall’apertura con “D#1” è chiaro il valore di quest’opera, un canto soave spiana la strada ad un intrigo ritmico tra tamburo, congas e piattini, l’organo a secretarne la sacralità ed un brano che è puro splendore.
Segue “D#5” (i nomi dei brani vi manderanno in confusione perché non in ordine) portando il bagliore dorato del primo brano in una fossa profonda, dove non basterà più una definizione alla moda come “dark” a descriverne il senso.
Arandel ha la capacità di muoversi negli ambienti più disparati con estrema sensibilità con quel tocco di platino che gli permette di rendere brillante ogni cosa.
La calibratura dei suoni, per intenderci, è accostabile ad un Murcof rinchiuso in un carillon, con in più una componente dance minimale mai aggressiva o sconvolgente.
“D#7” ne è in tal proposito un emblema perché unisce in maniera perfetta melodia e ritmo in un brano house composto da organo, fisarmonica e percussioni discostandosi in maniera netta e significativa da altri (tamarri) simili sparsi per il globo.

C’è spazio per l’urlo intensissimo di “D#9” e le sue spasmodiche corde di chitarra a creare una tensione altissima in quest’espressione post-rock apocalittica che è un pugno in pieno stomaco, episodio isolato che defluisce poi nella calma quasi spettrale di “D#8”, un intro ambient che sale man mano di intensità per sfociare poi in un battito dub sovrastato dallo squillante suono di xilofono.

Ritmo incredibilmente studiato, maestria nella costruzione di melodie classicheggianti, selezione sublime del parco suoni in un album di debutto neanche preceduto da alcun singolo è una di quelle situazioni quasi imbarazzanti che non possono far altro che farci pensare ad un big in incognita, il tempo ci saprà dire.
Credo senza alcun dubbio sia uno dei dischi che lasceranno il segno nel 2010.

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