Questa è una delle rare volte nelle quasi fermarsi un attimo, prendere del tempo ed ascoltare è la cosa più saggia da fare.
Avete migliaia di immagini che vi scorrono davanti, mille copertine, mille volte la stessa cosa.
Questo è l’anno della deep house, o almeno così sembra essere. Trovi produzioni deep house ovunque, firmate da chiunque, anche da gente che fino a ieri produceva drum and bass.
Ma in fondo, il contenuto è sempre quello che, chi ha un minimo di coscienza ed attitudine pura, va sempre a cercare.
Ed è proprio sul contenuto che lavora John Roberts, un astro nascente, proprio così, termine in disuso ma a mio avviso completamente calzante. Roberts ha una storia breve, poche release non sempre mirevoli, ma con una verità di fondo, quella che l’artista stava comunque cercando di costruirsi a fatica un cammino che lo portasse a definire un idea di suono che fino ad ora non era ancora riuscito a completare.
D’altronde l’aspetto più ostico della produzione è proprio il fatto di tradurre in suono un idea. Ora capisco che John aveva grandi idee, e finalmente hanno trovato materia in questo incantevole album.
Glass Eights è un disco che arriva dritto al cuore, perché riesce a descrivere attraverso calde pennellate il carattere ed i sentimenti di un produttore che ora appare ai nostri occhi come una figura romantica e triste, un animo ambrato pronto a mettersi a nudo per mezzo della musica.
Un disco che per semplicità potremmo accostare ai passati lavori di Richard Davis (un altro che se tornasse con un album così potrebbe farci scrivere che il 2010 è stato un anno meraviglioso) con quell’attitudine minimale non tanto nella strumentazione quanto nel proporre melodie che per profondità non possiamo non definire solitarie.
Brani che vivono una storia tutta loro, lontana dal dancefloor pur essendo prevalentemente in 4/4, sicuramente indipendente dai comuni canoni house.
In più, Glass Eights riesce a suonare come una di quelle ballate noir intercettate negli anni ’80, in un mood oscuro ed isolazionista come quello di alcune produzioni dei Death In June per intenderci.
Tutto questo può esser tramandato soltanto da un uomo condizionato da ascolti intensi ed emozionanti, cosa che manca oggi alla maggior parte dei giovani producers, gente che ha all’attivo diverse release senza possedere uno straccio di disco, perché oggi funziona così, tutti sono capaci a “produrre” ma nessuno ad ascoltare.
L’indifferenza e l’apatia che sta’ segnando i nostri tempi qui spazzata via a colpi di piano, corde ed elettronica, uniti insieme per raccontarci quanto bisogno abbiamo di musica che sappia fermare il tempo per permetterci di fotografare un attimo che profuma di eternità.
Entra nell’olimpo senza bisogno di candidature.