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Johnathan F. Lee Dislocated

Johnathan F. Lee - Dislocated

L’attesa è stata lunghissima, ma completamente ripagata dall’ascolto di questo album di debutto di Johnathan F. Lee, ex studente di Arts in Music Composition alla Columbia University, pianista e bassista in un gruppo jazz. Ora residente a Tokio, dove è entrato in contatto con le arti di Terre Thaemlitz che ha poi deciso di pubblicare questo album per la sua Comatonse record.

La musica contenuta in Dislocated è stata composta tra Stati Uniti, Europa e Giappone in un arco di tempo che và dal 2003 al 2008 ed eseguita in più step live insieme ad altri compositori, e sarebbe interessantissimo scoprire la data di creazione di alcuni brani per poter fissare meglio alcuni riferimenti che saltano alla mente ascoltando brani incredibili come ad esempio “Ritual Roundabout” o “Deconstructed Symbologies”.

Và detto innanzitutto che stiamo parlando di sperimentazione su pattern ambientali, spesso e volentieri sottoposta ad assalti ritmici degni della migliore scuola garage britannica, con particolare ripiego verso personaggi quali Vex’d o Pinch. Lee si muove in profondità, indagando con cura nelle pieghe del sottosuolo, riuscendo particolarmente bene nella creazione di pads grigi che si susseguono variando tonalità e restituendoci un colore nero pieno e brillante. Qualcosa che parte dalla desolazione di Ben Frost per arrivare alla chirurgica rappresentazione di Monolake.

Ed è proprio l’alfiere tedesco a venir in mente nei 9 minuti di “Deconstructed Symbologies”, primitiva incarnazione del basso annegata in un mare di micro-frammenti metallici disposti in complessi ordini. Una struttura che mette ben in risalto le capacità di Lee, acquisite sicuramente nei corsi di studio alla Columbia e maturate poi grazie agli ascolti ed alle infinite prove in studio.

Quest’estetica primitiva è maggiormente accentuata in “Ritual Roundabout”, un brano che sprigiona tutta la potenza e la persuasione dei bassi seguendo atmosfere che ricordano la stessa visione futuristica dell’Africa espressa da Portable in un album simbolo come Cycling, qui se vogliamo con un inclinazione più funkeggiante (se riuscite ad immaginale un funk decostruito in linee essenziali) che chiama a raccolta voci smembrate e percussioni tribali robotizzate incastrando tutti gli elementi in un’architettura dinamica che libera al tempo stesso grazia e tensione.

Ogni suono è curatissimo e la resa in cuffia delle più appaganti, specialmente quando la tecnica lascia spazio all’ipnosi, momenti presenti nell’album in maniera generosa quelli in cui Lee lascia partire spessi tappeti oscuri tessendo man mano dei grovigli sonici sottili ma ricchissimi di elementi. Come un esperto miniaturista, l’artista lavora modellando il dettaglio, focalizzandosi in quegli apparenti vuoti dove pochissimi andranno a cercare, ed è proprio lì che è tangibile l’arte di questo musicista che speriamo ci riservi nuovi, esaltanti, silenziosi capitoli.

Immaginatelo nelle prime posizioni della chart di quest’anno.

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