La hibernate è una delle nuove label del circuito ambient/drone/electroacoustic che sta pubblicando musica di qualità assoluta, promuovendo di continuo artisti poco conosciuti che stanno ricompensando la fiducia con album bellissimi nella maggior parte dei casi privi di esuberanza e/o tecnicismi fuori confine. Ne è ulteriore conferma questo disco prodotto da Danny Saul e suo secondo, dopo l’esordio su un’altra label da seguire attentamente come la White Box.
Il musicista di Manchester dimostra in questo lavoro una sensibilità fuori dal comune che gli ha permesso di comporre delle lunghe suite oscure fatte di drones e microframmenti riuscendo ad esporre una dialettica per nulla priva di comunicazione. L’uso che fa delle singole note, seppur dilatato nello spazio, riesce a dar vita ad eteree melodie immerse nella densa foschia. La chitarra elettrica, presente praticamente in tutto l’album rende a meraviglia la forza del metallo, una caratteristica del suo suono che sbatte letteralmente contro il tepore delle basi musicali.
Nelle due sezioni centrali da 13 minuti ciascuna viene descritto minuziosamente tutto il lavoro, che evolve splendidamente dal sonoro melodioso di “Robert Francis (Bobcat Goldthwait)” alle astratte ed impalpabili figure di “On Howard Stern”.
Nel brano di chiusura è invece il piano ad assumere una posizione primaria e grazie ad una composizione minimale dai toni commoventi ci regala un finale da pelle d’oca.
Il tempo è l’elemento prezioso nel quale viaggia questa musica e Saul lo sfrutta guardando continuamente un orizzonte inarrivabile.
Se avete amato un disco come We Were The Sun di BvDub questo vi sembrerà la più degna prosecuzione di quel lasso temporale sospeso nel cosmo.
200 copie soltanto, dormire è peccato.