Germania non significa solo Berlino ma anche Jena, cittadina situata a sud della capitale dove, a partire dal 1998, Freude Am Tanzen ha cominciato a diffondere il proprio marchio.
Concepita con un artwork e una presentazione che gioca con similitudini tra musica e arte culinaria, “5zig” (o “fünfzig”, ovvero l’equivalente di ‘cinquanta’ in tedesco) celebra, attraverso dodici brani inediti, l’uscita numero cinquanta, da cui la scelta del titolo.
L’apertura è affidata a Kadebostan che apre in modo morbido e sublime la raccolta con “Mother Cries”, salvo poi ritornare con un (discutibile) martellante taglio acid su melodie esotiche il cui titolo è di per sè eloquente (“Mon Petit Soleil D’Algérie”).
Le svisate tech-house di Monkey Maffia, poste a seguire, non graffiano, così come Douglas Greed che, pur non raccontando nulla di nuovo in “Back Room Deal”, svolge il suo compito in modo impeccabile, complice la voce ammiccante di Delhia de France. Analogamente, Daniel Stefanik non si distingue per una ritmica particolarmente originale, seppur incalzante, ma riesce comunque a dare un senso di profondità e straniamento, quanto di grande naturalezza, in “Tension In Leipzig”.
Marek Hemmann fornisce in “Picture” un andamento accattivante con il cantato gradevole di Fabian Reichelt che ben si adatta, formando (insieme al brano di Greed) l’episodio pop più orientato verso la forma canzone.
Mathias Kaden conferma in “Red Walls” la stima di cui gode nei circuiti berlinesi con un una sferzata di deep house intermittente mentre un discorso a parte merita Robag Wruhme, ancora una volta immerso in eccellenti rarefazioni percussive che confermano la peculiarità della cifra stilistica dell’artista (soprattutto se filtrate attraverso la recente raccolta pubblicata per Kompakt e l’ottimo album in uscita su Pampa) a conferma che, dalla fine del duo Wighnomy Brothers, può solo trarne giovamento.
I due brani in chiusura sono due gemme strategicamente importanti nell’equilibrio del disco, due brani solidi che aggiungono spessore e pathos: le visioni house ‘ultraterrene’ di Juno6 e le progressioni ambient (caratterizzate dall’espediente di essere intercettate quasi per caso da qualche remota stazione radio) di “Exit 9” che sfociano, negli ultimi due minuti, in un campionamento vocale su pianoforte (tratto da “Imagine All Music Has Disappeared” con la voce di Bill Drummond): forse la miglior trovata in assoluto del disco nonchè degna conclusione.