Entrai a contatto con la musica di Conforce più o meno due anni fa, in occasione dello splendido album di debutto “Machine Conspiracy”, era un intraprendente ventiduenne rifugiato in quel di Terschelling, Olanda. Stupì con quella sua visione innocente della techno, particolarità che gli permise di non formalizzarsi sul beat per descrivere con l’audacia della giovane età un sentimento covato nel profondo, vergine ed ancora pieno di creativa innocenza.
Nelle tessiture di quell’album c’era un’anima psichedelica illustrata con incanto in brani lunari come “Love Hate” o “Substraction”, vette tuttora inarrivate dalla moderna narrazione techno. Quel che senza dubbio alcuno stupiva maggiormente era infatti una poetica molto calda e profonda, lontana dall’appartenere ad un poco più che teenager europeo, e forse accostabile in qualche maniera con maggior cognizione di causa ad un giovane Carl Craig per esempio. Un esordio col botto, è proprio il caso di dirlo, perchè da lì in avanti sono cambiate molte cose.
Il giovane Boris Bunnik è diventato per tutti Confoce ed ha cominciato ad entrare nelle grazie del circuito techno che conta davvero. Poi lo sappiamo, in Olanda non stanno certo a dormire, ed il buon Marcel Delsin, fiutata la portata del talento non ci ha pensato due volte a lanciare l’amo al quale il giovane Boris (giustamente) ha abboccato al primo colpo.
Ora però non saprei dirvi se questo è stato un bene o un male per il giovane Boris, quello che posso constatare con certezza è che le cose sono cambiate (è la naturale evoluzione del talento obietterà qualcuno di voi) ma in questo nuovo album stampato dalla gloriosa ed onnipotente Delsin Records ci troviamo di fronte ad un colosso di tutt’altra portata.
Va fatta innanzitutto una premessa, prima di questo album sono stati molti gli ep giocati dall’uomo, alcuni a proprio nome, altri come Versalife, poi Vernon Felicity ed altre piccole cose, ed è come se la personalità multipla rappresentata in quel fulminante esordio si fosse scissa in varie entità, canalizzando così il suo talento innato in output ben distinti che ora fanno tremare le mura con un termine che infelicemente vado ad usare: professionalità.
L’uomo è diventato artista ed oltre a fare musica ha assorbito l’insegnamento della gestione, ruolo che in questo momento è aimè essenziale per chi vuole riuscire a sopravvivere facendo il musicista.
Questa trasformazione ci porta quindi alle soglie di Escapism, secondo lungometraggio spinto in pompa magna dal colosso Olandese e disco che batte a vele spiegate su quella che ora, monoliticamente possiamo definire Techno.
Lo schiaffo arriva subito e forte con “Revolt DX”, brano che apre il lavoro, un imponente marcia in quattro con oscuri spettri analogici a far da sfondo a quello che sembra un groviglio di note di xilofono, un groove ben assestato che non può non rimandarci ad alcuni capitoli recenti di Claro Intelecto.
Segue il brano che titola il lavoro “Eclapism”, isolati battiti scomposti su fondale dub, echi di liquide pulsioni poi un intreccio tribale ed una manovra di basso. Quando entra anche il piano si accende una luce che illumina la memoria. Peccato che sarà un isolato lampo.
“Elude” vira su un minimalismo oscuro ed a toni acidi con un battito lento che accompagna l’intera durata a dire il vero senza aggiungere molto alla partita aperta.
“Lonely Run” sembra riprendere dallo stesso ritmo per poi offrire una splendida discesa nel buio, con un sinistro synth a scaldare l’ambiente ed un eco metallico che sembra ad ogni passaggio voler fermare il tempo. Sul finale un delicato ribollire acido ne consacra la bellezza.
“Shadows of the invisible” ritorna sul binario techno dal groove possente in pieno stile Delsin, girando su un groove bello ma paraculo.
“Within” è un nuovo assalto ai fondali con un ritmo abbastanza aperto che sfocia poi in un’orgia di claps e tutto un classicismo di suoni e vibrazioni da perfetto corredo dub-techno.
“Aquinas Control” è il ronzio della corrente elettrica ascoltato in una stanza al buio supportati da un ritmo ovattato ed estremamente funzionale, da fiochi segnali luminosi e da una coltre di battiti scomposti.
“Ominous” è il terzo reverenziale tributo alla casa madre, con una techno tutta cassa e tamburi digitali in virata acquatica che ci conducono verso la conclusiva “Diversion”, grande brano elettronico con un ritmo che si eleva fino a diventare regolare nel finale.
Un album sicuramente di spessore che non faticherà a trovare accaniti sostenitori ma che per il sottoscritto risulta molto lontano dall’inventiva espressa al debutto. Nulla toglie valore a quello che tengo comunque a considerare uno dei più talentuosi giovani artisti europei, nella speranza che torni presto a farsi vedere quell’avventatezza che ci aveva fatto brillare gli occhi neanche due anni fa.