Iniziamo con un’osservazione geografica in forma di premessa: il suono immortalato da Planet Mu in questa raccolta, qui costituita dal secondo capitolo dell’opera, proviene direttamente da Chicago. Il nome di questa città è ormai globalmente associato, per un procedimento quasi automatico, all’esplosione di una delle più fertili realtà culturali ed estetiche che abbiano investito la storia della musica: la house. Col passare degli anni, e delle evoluzioni stilistiche, questo macro-genere ha sviluppato una immensa varietà di forme e configurazioni, più o meno fedeli alle origini, in cui DJ e musicisti hanno saputo costruire quello che ad oggi appare come un universo stilistico a sé stante, con regole e forme precise e determinate. Alla base di questa musica, indubbiamente, stava la potenza e l’essenzialità del ritmo, anzi, della pulsazione. Essa veniva tradotta in un semplice pattern ritmico: 4/4, dritto, irremovibile e solido. Impossibile non riuscire a ballarlo.
E’ curioso che sia questa stessa città, dopo 20 anni, a diventare scena di una nuova “ondata” che sta aprendo breccia nelle realtà musicali più attente all’avanguardia. Si chiama footwork, ed è a questo genere – ed al suo sottomondo culturale – che l’etichetta di Paradinas dedica il disco in questione, che si accoppia ovviamente alla prima parte, completandola.
Il footwork è prima di tutto un particolare tipo di ballo mutuato dalla breakdance, che porta all’estremo l’abilità tecnica e si concentra solo sugli arti inferiori del corpo. Il ballo prende spesso la forma di battles fra varie crews (e qui troviamo l’altra grande fonte di riferimento: l’hip hop ed il suo mondo), in cui diversi ballerini si alternano sulla pista e si sfidano in una gara di pura tecnica ed abilità. I movimenti sono talmente complessi, rapidi e disarticolati che chi, da profano, osserva, perde qualsiasi riferimento ritmico sulla musica che accompagna la scena.
La musica footwork, appunto, rispecchia queste caratteristiche. E’ inutile: se la si ascolta è meglio dimenticarsi la sensazione che avrebbe dato un ritmo in 4/4. Non è sicuramente qui che va cercato. Anche quando esso è utilizzato a tutti gli effetti, viene gestito in modo da disorientare. E non servirà a nulla anche ragionare in termini di sedicesimi o trentaduesimi. Le divisioni ritmiche usate non sono sottomultiple del quarto o della terzina, ma di numeri irrazionali. Il footwork è semplicemente aritmico, nel vero senso della parola. Va oltre la sincope, oltre le battute irregolari: un treno diretto per la schizofrenia percussiva.
Un’altra particolare caratteristica di questa musica è il rapporto con i samples. Solitamente è sempre lo stesso campione per brano, comunque mai più di due o tre, processati attraverso qualche filtro e qualche pitch shifter che viene incollato sul il beat di cui sopra. Tuttavia credo di non aver mai ascoltato dei DJ così accaniti nello smaterializzare il significato dei campioni usati, nel farli letteralmente a brandelli e proiettarli caleidoscopicamente nel brano di turno. Sicuramente nessuno ha mai maltrattato i Prodigy come DJ Metro in “Smak my bitch up” (sic).
A tutto questo aggiungete un subwoofer che segue o sostituisce la cassa stessa, nonostante a volte rasenti la soglia dell’udibile. Questi giovani DJ non hanno mezzi termini: ci sono alcune frequenze molto alte e acide, quasi sempre gli hats, che si accompagnano ad un tappeto di frequenze medio-alte. Poi un baratro che si arresta solo verso i 25hz, in cui si trova il “basso”.
Ci sono voci che idolatrano questo nuovo genere come l’alba di una nuova era elettronica, forti del fatto che alcuni artisti più affermati, come Kuedo o Maschinendrum, ne abbiano attinto per gli ultimi lavori; in effetti si tratta di un sound completamente nuovo.
Personalmente ritengo che l’avanguardia sia un’importante punto di vista ma che, a volte, qualche compromesso sia molto più utile ai fini ultimi dell’ascolto e del piacere che questo dovrebbe dare. In “Bangs & Works” si trovano vari brani interessanti e godibili, ed è pur vero che il tutto può risultare interessante per chi sia desideroso di novità a tutti i costi, ma è altrettanto vero che spesso la sensazione dominante durante l’ascolto rasenta il fastidio, ed a mio avviso ciò basta a vanificare tutto il resto.
Certo, è probabile che in futuro una buona fetta della musica elettronica venga influenzata da queste idee (soprattutto per quanto riguarda la gestione del ritmo), ma la storia della musica e della cultura in generale ci insegna che prima che una novità venga “digerita”, capita e interiorizzata, devono passare diverse generazioni di musicisti. E’ vero che persone come Merzbow e GOD hanno messo in pratica i precetti dei teorici più all’avanguardia e dei concretisti degli anni ’50 (per non parlare di futuristi e dadaisti). Ma i tempi erano decisamente più maturi.