I tedeschi Oliver Klemme Stephan Otten approdano dopo una lungimirante carriera alla corte della Denovali Records, etichetta che in una manciata di anni è riuscita a diventare un luogo imprescindibile per gli amanti di sonorità coraggiose che vanno dal jazz all’ambient passando per le insenature più profonde.
Appare nel 2010 un primo split dei Sankt Otten seguito poi da un acclamato album intitolato Gottes Synthesizer. Passa un anno ed ecco di nuovo i nostri a proseguire su quel sentiero cosmico intrapreso in quello che ricordiamo come l’album dalla copertina rossa. Questa volta, sullo stesso incipit grafico del primo, passiamo al nero, il colore dello spazio più profondo, quello che i due musicisti tedeschi riescono ad illustrare con dovizia ed eleganza, regalandoci un nuovo capitolo di questa saga cosmica ispirata al suono dei pionieri tedeschi di quell’era lontana.
L’apertura di “Sequencer Liebe” è senz’altro significativa degli intenti, con quel progressivo giro di tastiere intonate al cosmo che sembrano rievocare antichi spettri mai dimenticati in un gioco di sovrapposizioni e sospensioni che ci trasportano in un lungo viaggio verso l’ignoto.
Nel secondo brano le chitarre assumono un alterazione gotica che inspessisce la struttura del viaggio, con la batteria elettronica a scandire un tempo dilatato ed il solito montare di sintetizzatori a sostenere un’epica sempre rivolta allo spazio, ma questa volta con un enfasi sulle note oscure a raggelare l’atmosfera.
Si prosegue nel settaggio notturno con “Hungrig Kann Man Nicht Tanzen” ed il suo organo che sembra voler abbracciare le volte celesti.
I Sankt Otten hanno una poetica adulta, rifinita e questo è percepibile nella mole di influenze esterne al cosmic sound nativo, tutta quella gamma di effetti proveniente dall’ambient più oscura e dalla sperimentazione che in questo lavoro va ad amplificare ed arricchire tutte quelle melodie che escono incontaminate dai synth.
C’è dell’altro, la loro espressione è sicuramente quella del lavoro di lunga durata, il formato album è senza dubbio il raggio d’azione più opportuno per questa formazione che sarebbe grandioso poter ascoltare live.
Il finale è un grandissimo showcase di toni ed ambientazioni che volgono, immancabilmente, alla cinematica horror di fine settanta con un brano come “Der Heilige Schmerz” che va a descrivere minuziosamente quegli antri della paura avventurandosi inoltre in una tematica elettronica vintage in bilico tra Carpenter ed i Goblin.
In chiusura sono ancora le note d’organo a guidarci nel rientro in questa scia interstellare dai toni epici che conferma in maniera definitiva il talento e la classe di questo duo assolutamente brillante.
Non ultima una menzione particolare per le illustrazioni e l’impaginazione del packaging, curate da Salustiano Garcia Cruz, che realizza degli incredibili ritratti che si amalgamano alla perfezione con l’elegante minimalismo del layout.