Passati da poco i due anni dallo splendido album Omega torna Robert Hood con un nuovo lungometraggio che riprende e firma il terzo sigillo nella saga dei “Nighttime World”, seguendo il primo volume del 1995 su Cheap ed il secondo del 2000 sulla sua M-Plant.
Per questo terzo episodio il fuoriclasse di Detroit si affida alle cure della Music Man, la storica label belga che sembra mantenere altissimi gli standard qualitativi delle proprie releases, pubblicando questo disco capolavoro a poca distanza dalla grandiosa prova di Petar Dundov.
E’ così, Robert Hood dimostra di essere l’unico detroitiano della vecchia scuola ad aver ancora tantissimo da dire, andando oltre i meriti per i quali è diffusamente ricordato (Minimal Nation sembra esser l’unico argomento di discussione quando si parla delle prodezze dell’uomo) per ricollegarsi alla Techno con tutte le armi che dispone.
Cerchiamo di non dimenticare mai una cosa, Robert Hood è stato per un certo periodo uno dei membri oscuri degli Underground Resistance, quindi ha respirato, vissuto, sudato e sperimentato la musica, traendo insegnamento da tutto l’universo teorizzato dapprima e messo in pratica poi dall’ormai leggendario collettivo.
Ecco, in questo terzo capitolo che prende il nome di “Motor: Nighttime World 3”, Hood ha abbandonato quella cinica visione minimalista della techno per tornare ad un suono rigoglioso, caldo ed incredibilmente comunicativo, sottoponendoci ad un flusso di melodie che alza le temperature di questo fine estate e ci avvolge con una potenza espressiva che sembra carpirci l’anima.
“The Exodos” apre proprio così, con un ampio tappeto che si srotola lasciando volare in aria i primi cenni di un suono denso e pieno di verve, un brano che ci introduce un viaggio per certi versi inedito nella discografia di Hood.
Ci pensa poi “Motor City” ad avviare il ritmo con un crescendo di basslines e pads da capogiro per un brano che svela anche una programmazione ritmica articolata ed un potere descrittivo fortissimo che ci lascia immaginare il disco come la soundtrack perfetta per il documentario che sembra abbia ispirato la musica, ovvero “Requiem For Detroit” diretto da Julien Temple.
La seconda grande ispirazione invece deriva proprio dalla sua città, quella Detroit che l’ha visto nascere, crescere e poi fuggire via, alla ricerca di un luogo migliore per far crescere i propri figli. Una Detroit che Hood descrive così:
“The situation in Detroit is making people uncomfortable but that’s a good thing if we look at it in the right perspective. It’s a shaking up and realisation of the condition that Detroit has been in for so long. As it was a long and slow process people became immune to what was happening, almost asleep at the wheel. This once progressive city is now half gone. To make a new future, Detroit needs to look deep within to be able to see a new vision and thrive once more. As long as there is a seed, there is hope.”
Guardarsi dentro per tornare a prosperare. Sembra proprio ripartito dal nocciolo, anche con la sua musica, tornando a vestirsi di tutto quanto lo ha influenzato per cercare una nuova via. Una via che è in tutto e per tutto Techno.
Un suono liquido che sembra insinuarsi in ogni piega e talmente versatile da vestirsi d’ambient e d’electro con estrema eleganza e disinvoltura.
“Better Life” è un faro in questi termini, un brano che dispiega synth, corde ed archi per raccontarci il paradiso, una visione celeste che rende pienamente l’idea di splendore, scivolando negli squarci ambientali della seguente “The Wheel” dove piano e voce tormenteranno la vostra mente mandandola in ipnosi.
Non mancano ovviamente i numeri d’alta scuola del groove, “Black Technician” è infatti uno di quei pezzi Techno perfetti per alzare la tensione, con il suo “tiro” costruito con calma mentre dal basso si scatena l’inferno, un brano che con l’inserimento della melodia metallica e del raddoppio di cassa nella seconda parte sarà in grado di distruggere ogni pista da ballo.
“Learning” torna a volteggiare su un più casto ritmo electro, un momento che sembra quasi di sospensione, ma che anche qui libera man mano atmosfere e pathos da far impallidire chiunque.
“Drive (The Age Of Automation)” e “Torque One” tornano a picchiare in due differenti visioni, la prima con un attacco sfrontato e distruttivo che continua a mantenere comunque un approccio melodico ben marcato, la seconda mostrando una vena housey segnata dalle percussioni e dai suoni dub.
“Hate Transmission” è techno acid di un eleganza unica, un brano che spinge sull’acceleratore facendoci gustare tutte le vibrazioni della bassline e riuscendo a suonare allo stesso tempo morbido e profondo.
Il finale lascia ancora spazio all’ambient con due brani che ulteriormente ci lasciano intuire quanto l’artista sia in grado di stupire con la musica, scrollandosi di dosso ogni cliché e lasciando intendere di essere uno dei pesi massimi della musica elettronica.
Qui c’è tanto di quel materiale di studio per le nuove generazioni che si affacciano alla musica elettronica che meriterebbe un riconoscimento ufficiale.
Se cercate ancora speranza in Detroit potete dormire sonni tranquilli, il futuro passa ancora da lì.