Stefan Panczak è sempre stato un solitario, la sua musica una voce estremamente personale e fuori dal coro, ed è forse per questo che finora non è mai arrivato al grande pubblico, nonostante di musica ne abbia prodotta, dal 2003 ad oggi contiamo sei album e svariati Ep. Con “Aurora” è riuscito a toccare delle corde inimmaginabili, regalandoci una delle perle deep più belle di sempre, ma sarebbe quantomeno riduttivo circoscrivere la sua discografia a quel piccolo miracolo. Il suo è sempre stato un suono per cultori dei viaggi delicati ma non privi di insenature ed increspature. Ambient per lo più, ed infatti è questo il termine che più propriamente può contenere la musica prodotta come Inch-Time.
Si ripresenta ora, dopo due anni dai precedenti “The Floating World e A Handful Of Dub (rilasciato su musicassetta)” con un nuovo lungometraggio intitolato “Myth And Impermanence” ed è subito chiaro come la sua musica cerchi di dirigersi verso un suono più maturo ed aperto a soluzioni differenti. Il jazz in questo caso, sono molte infatti le parti suonate da musicisti reali, sequenze di batteria, percussioni, tromba, basso, piano Rhodes e sax, un approccio certamente non nuovo, ma da lui trattato con quella necessaria dose di rispetto che gli ha permesso di inglobare alla perfezione il calore per così dire “live” a quello più rigido e formale della musica di matrice elettronica.
Insomma, non abbiamo davanti un compositore che cerca il colpo di scena ma quello che vuol mantenere basso il suo profilo regalandoci(si) nuove emozioni. Non fa neanche il diavolo a quattro per cercar di celare riferimenti proclamandosi l’inventore di chissà che cosa, è indubbio quanto il krautrock tedesco, il free jazz di casa actual e molta dell’ambient del compianto Pete Namlook abbiano influito sulla sua personalità e conseguentemente sulla sua musica, semplicemente Inch-Time porta avanti quel lavoro, trovando affinità e facendo quindi convergere queste influenze l’una dentro l’altra.
Myth And Impermanence è un album che puoi ascoltare venti volte di fila senza sentirti sovraccarico od annoiarti, ha il mood pacato delle rifiniture elettroniche, l’estasi emotiva del jazz e la progressione delle evoluzioni kraut di vecchia data, sin dall’iniziale “Time Of The Fire” che apre con un rullo sui piatti per poi far sfogare la batteria su di un synth che ribolle ed accoglie il crepuscolo elettronico. Vien subito un nodo in gola a saper stampato questo brano soltanto su CD, il vinile l’avrebbe fatto salire in cielo, soprattutto quando la chitarra fa il suo ingresso dipingendo traiettorie astrali che liberano luce tutta intorno.
“The Sun Myth” è musica ancora crepuscolare, ha il buio dentro ma riflette per gli ultimi istanti la luce, xilofono, batteria e tromba, suspance elettronica a saturare l’aria, quella sensazione di benessere. “Woods” è un downtempo lunare con il basso a “cantare” proprio la luna, alcune note che puntano al cuore ed un ritmo lento che sembra assecondare il trascorrere del tempo. “Stapedius” è la notte che avanza, è il deserto intorno e la musica sola ad ululare, una tromba che si lascia contemplare, sola ed argentea, isolata grazie a quei suoni fuori coordinata che tempo fa un certo Mika Vainio ci ha insegnato ad amare.
Una musica che corre incontrastata, dalla quale non è possibile distrarsi, e gli accordi di chitarra che introducono la progressione di “Night Falls” sono li a confermare la bontà di questo disco, poi batteria, percussioni e tromba ci parlano della ricchezza dell’intelletto, del buon tempo che dedichiamo agli ascolti.
“Black Mountain” ritrova il gusto del ritmo, parte in sordina, con accenni di tromba ed una cassa lenta e rotonda, accenni di voce, poi si inasprisce e si trasforma in quel brano dance che non avrete mai modo di ballare.
“Home” ci regala un discorso ambient in purezza, ritmo spezzato, tappeti infiniti, suoni soffusi ed una melodia incantatrice, e scivola lontano, dentro una perla melodica come “The Devil In Any Key”, qui l’artista trova il miracolo in cinque note, un accordo struggente che da solo fa il brano, non fosse che Inch-Time ci ricama intorno la “solita” splendida texture.
Otto minuti abbondanti di psichedelia intitolati “Decay” segnano un finale solenne, la chiusura di un album che rappresenta bellezza, sostanza e piacere puro in questo inizio d’anno.
Ora vorremmo solo due cose, poterlo ascoltare live e vederlo stampato anche in vinile ma intanto non perdete l’occasione di ascoltare questo grande album.