Un titolo pretestuoso, non c’è che dire, interrogato dal sottoscritto sul significato, Chris Jones risponde che vuol essere un incitamento a liberarsi delle tendenze e dei sottintesi vincoli artistici, poi aggiunge che c’è anche qualcosa di personale, ma non specifica.
Yard è la sua creatura, questo musicista dell’Oregon, Portland per l’esattezza, può esser considerato un outsider vero e proprio, un personaggio che è andato sempre avanti con le sue forze, seguendo un percorso fatto di techno ed acid spinto attraverso la sua label (la Yard Rec) ed ultimamente attraverso le attenzioni della Furhter Records, con la quale ha già pubblicato uno splendido tape intitolato “Celestial Acid” ed è in procinto di pubblicarne un nuovo a breve.
Goodbye Detroit dunque, bene lasciamo un attimo da parte il titolo ed occupiamoci della musica, otto brani techno/ambient che mettono al centro di tutto quell’attitudine psichedelica che Yard ha sempre riservato alla sua musica.
Il primo brano, “Drumtime” è una sorta di benvenuto nel quale l’artista finisce di metter a punto le macchine settando per bene le drums machine per delineare un percorso ritmico frontale al dancefloor, poi ci sono quei grooves grezzi, aciduli, se volete anche old school che imperversano tagliando “a fette” l’aria.
“Rec” ha una partenza lenta lungo la quale si aggiungono elementi sonori e ritmici, è il primo dei tre lunghi brani dell’album, tutti sopra i dieci minuti, e va a creare quel mood ipnotico e psichedelico tipico delle produzioni di Yard. La carcassa è minimale, battiti secchi e grooves passati al setaccio, ma l’insieme è inebriante, crea un distacco mentale vicino alle melodiche della trance. I synth in rotazione e la meccanica di tutti gli elementi che presi singolarmente lasciano un chè di asettico, uniti in questa composizione trovano un alchimia perfetta.
“Detroitbirds” inizia con un beat scomposto che trova poi assestamento nell’incedere brutale della cassa, intorno si alzano fiamme che gridano battaglia, quei synth grezzi, acidi e corrosivi che poi lasciano spazio ad un montante angelico che prende la “piazza” alzando ulteriormente il tiro del brano alla ricerca di un epica techno che, in questo caso possiamo dirlo, è assoluto splendore. Dieci lunghi minuti di paradisiaco acido.
“Dirt2” invece un brano chiuso, quasi timido, il tappeto iniziale ha le sembianze di un lamento, mentre la cassa batte colpi foderati di stoffe pregiate. Un brano techno/ambient commovente, fumoso, delicato. “Piano” è un brano ambient basato su dei delicati arpeggi e sul suono di una chitarra, le note vengono effettate regalandoci momenti di grande piacere.
“Glowing Moon” mantiene le fattezze ambient ma punta tutto su uno sbilenco battito, s uno straniante suono lunare e su un’atmosfera scientifica che denota versatilità e grande padronanza dei mezzi.
Forse era questo il concetto alla base dell’album, virare tra i generi senza gravarsi del peso della storia, eliminando preconcetti (preset) e soluzioni già sentite.
Il brano di chiusura si intitola proprio “Goodbye Detroit”, ed è un pezzo elettronico che esula dalle definizioni, ha il suono di un organo che squilla verso l’alto, un ritmo spezzato ma ben organizzato, una serie di retro-suoni che arricchiscono la trama ed un senso di coesione tra gli elementi che ancora una volta mette in luce un’ottima scrittura.