Samuel Kerridge era di fatto uno dei nomi più attesi del tardo 2013, relativamente nuovo ma già influente nel merito di quel contesto di ridefinizione dei contorni della techno più borderline. Con A Fallen Empire dà un quadro ormai definitivamente inequivocabile di quello che è il suo personale punto di vista sul tema, costruendo degli impressionanti squarci di pessimismo sonoro dall’approccio doom.
E questo di lui si può dire in molti modi. Nel senso della solennità, perché Kerridge è un autore molto serioso, quasi ieratico. Ma si può dire anche in riferimento alla costruzione stessa dei brani, dagli arrangiamenti fino alla scelta propria dei suoni. Spesso non a caso associato a Shifted o Ron Morelli (condivide con loro alcuni colori: industrial, noise, dub techno), è però dei tre il più rock. Se Shifted ha in mente la pulsazione come motore primo, Morelli un eclettismo stridente e tutto sommato votato alla ciclità marziale del loop, Kerridge sembra invece costruire i propri brani con quel succedersi di eventi tipico di un determinato progressive (post)metal e che è ad esempio tratto distintivo dei Neurosis nel periodo fine anni ’90. Black Sun è chiaramente una bordata noise, ma Chant come Death Is Upon Us o Straight to Hell, pescano i propri elementi da un immaginario opprimente, espiatorio e violentemente purificatore. Massivo nella frontalità degli attacchi, costruisce i brani per gradi, offrendo variegate soluzioni nelle sottotrame come anche nei fraseggi in primo piano. E’ distorto e narcotico- si pensi alle oscillazioni di Heavy Metal (e ormai dovrebbe essere chiaro anche solo dai titolo il punto del nostro). Disgust è un ulteriore attacco anche nelle battute finali, aggressivo nell’incedere e tragico negli esiti, che chiudendo il lavoro ne conferma la sua stabilità monocromatica.
La quadratura nella perfetta coerenza interna del disco è ancora più esaltante se pensata organicamente alla totalità dei lavori di Kerridge, che offrono ormai da qualche uscita più o meno sì le stesse gradazioni ma con una rinnovata e apparentemente inesauribile quantità di soluzioni sempre nuove o comunque differenti. Come se da Auris Interna (2012 ma già alcune uscite fa) in poi in realtà stesse sempre suonando lo stesso pezzo ma ogni volta in modo diverso.
L’abilità è ormai conclamata. La piccola perplessità che può insinuarsi è relativa al senso di una tale radicalità. E a ciò non si potrà rispondere con certezza prima che sia passato un giusto tempo fisiologico da questa uscita. Per ora Kerridge ha fatto un disco interessante che lo conferma tra le voci più degne di questo movimento techno-distopico.