Quello di King James Britt è uno di quei genuini casi registrabili circa un produttore musicale forte di una straordinaria cultura che partendo dal Jazz abbraccia ad ampio raggio il Funk, il Reggae, il Dub, la Discomusic e l’Hip Hop, un musicista in grado di riversare questa conoscenza, sotto forma di ispirazione, nella musica che durante l’ultimo ventennio ha composto e pubblicato. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 infatti, col suo nome di battesimo, ha cominciato a manifestarsi con una miscela di House e Deep House intrisa di elementi e richiami estratti dal bagaglio personale, riuscendo a mantenere un basso profilo che, come vedremo, rappresenta ancora oggi la sua cifra stilistica, nonostante per capacità creative, estro ed eclettismo avrebbe potuto avere tutte le carte in regola per dirigere l’ennesimo “nuovo” hype.
King Britt è un produttore che ha sempre fatto di testa sua e che ancora oggi può fregiarsi di non aver mai disdegnato alcuna soluzione stilistica, riuscendo nell’impresa di non farsi confinare dai media a “paladino” di questo o quell’altro genere, riuscendo quindi a far evolvere un percorso personale sempre più vicino ad un’estetica elettronica. Il primo vero segnale di questa evoluzione è stato sicuramente il progetto The Nova Dream Sequence, rilasciato nel 2006 per la Compost Records. Un primo Ep, poi subito l’album: Interpretations, quindici segmenti che hanno messo in campo un autentico atto di mutazione di quel suono che partendo da un corpo house è stato pian piano spogliato spogliato per poi esser rivestito di nuova linfa, un disco che è riuscito a dimostrare quanto il groove possa non avere limiti o costrizioni, perché in ognuno di quei brani è impresso un dinamismo funk che riesce ad essere irresistibile in quel rito di passaggio che sembra suggerire a Chicago che Detroit non è poi così lontana.
Passa ancora qualche anno e quello che abbiamo conosciuto semplicemente come King Britt sembra andar scomparendo, nascosto per bene tra le pieghe di un nuovo progetto: Fhloston Paradigm.
Il fulmine si schianta sul pianeta terra con un vinile nero intitolato Chasing Rainbows, siamo ormai nel 2012 ed è la Hyperdub ad assicurarsi questo gioiello. Tre brani dove si inneggia all’acid con una serie di pulsazioni scomposte e nevrotiche sovrastate da un’energia nera che cercando un regolare battito techno viene distratta dai breaks e da programmazioni di gran lunga più complesse. Un disco di fondamentale importanza, perché oltre a presentarci il nuovo step evolutivo di un musicista che non è mai stato fermo, ha restituito la giusta dose di oscurità ad una label fin troppo lanciata grazie all’attenzione mediatica suscitata da Burial. Altro fatto importante, il disco viene titolato con un significativo: King Britt Presents Fhloston Paradigm. Un vero e proprio passaggio di consegne che lascia intendere una nuova strada per l’artista di Philadelphia.
Sempre nel 2012, poco tempo dopo la pubblicazione dell’Ep, pubblica un podcast per FACT Magazine dove, sotto Fhloston Paradigm sembianze, mette insieme ventitré brani che vanno da Alva Noto a Galaxy to Galaxy, dai Chemical Brothers agli Eurythmics passando per artisti sconosciuti come Specta Ciera o Power Douglas.
Ora è arrivato l’album, The Phoenix, un doppio vinile (esiste anche una versione in CD) con quattordici brani dei quali tredici inediti ad eccezione di Chasing Rainbows pubblicata sul precedente singolo.
L’impresa più dura era sicuramente quella di mantenere alto il tasso creativo, perché perlomeno sulla qualità dei suoni messi in campo potevamo tenerci abbastanza ottimisti. Beh, The Phoenix in questo è un vero e proprio miracolo, sprigiona un’energia incontenibile attraverso un suono che è la perfetta sintesi tra un approccio primitivo e corporeo al ritmo ed uno studio avanzato sui suoni e sulle tonalità. In ogni brano è palpabile questa doppia anima che credo sia finalmente giusto definire afro-futurista, un grande equilibrio tra elementi ritmici minimali ed una ricchezza negli arrangiamenti e nella quantità di suoni e voci messi in campo che delineano una direzione che punta indubbiamente allo spazio. C’è un brano simbolo di tutto questo, si chiama Tension Remains ed è un capolavoro sci-fi dove le pulsazioni ritmiche ipnotiche entrano in collisione con pads ultraterreni ed un cantato apocalittico per proiettarci in una nuova dimensione.
L’altro aspetto fondamentale è quello delle architetture, i brani di Phoenix evolvono veloci ed inaspettati, nascondendo in ogni lasso temporale nuove soluzioni ritmiche od armoniche, un lavoro dove creatività, ingegno e padronanza dei mezzi hanno coinciso alla perfezione con un’ispirato senso melodico. Oltre tutto questo infatti, l’album non è mai criptico o di difficile lettura, i brani sono tutti fruibili e si fanno specchio di una sofisticata bellezza.
C’è un secondo brano sul quale voglio soffermarmi, si chiama Letters Of Past ed è un esempio perfetto di quanto il suono contenuto in quest’album punti dritto verso il futuro, l’utilizzo dei sintetizzatori è tutto incentrato nella creazione di tappeti sonori sovrapposti che sembrano proiettarci in un viaggio tra le stelle, mentre la carcassa ritmica risalta grazie ad un’impronta Jazz astrale e la soave voce di Pia Ercole avvolge il tutto in un manto di mistero.
Se non lo avete capito, è un disco imperdibile.