Jo Johnson è un’artista inglese che i più accorti avranno captato intorno alle frequenze auree di Bleep43, prima blog, poi etichetta discografica che ha lanciato in mare un solo lieve segnale mal captato. O ancor prima, ma qui siamo veramente in territori di culto, come chitarrista nella band punk-rock Huggy Bear. Ascoltata in Italia, precisamente a Torino, nel giugno del 2010 in occasione di uno degli eventi targati “Just Music Maker” dove i racconti ci narrano di un live di grande struttura ed ispirazione.
Questo è il suo inaspettato album di debutto, pubblicato sulla solida Further Records da Seattle, label che sta mettendo a segno una serie di album elettronici improntati perlopiù su un mood d’ascolto.
Questo Weaving è un esordio sfavillante, un esempio lampante di come il minimalismo elettronico possa ancora offrire spunti creativi ricchi di sostanza, senza cadere nell’oblio di strutture facili o di furbe dinamiche. Qui c’è tutto uno studio/tributo verso quell’ala radicale nella cui orbita troviamo musicisti del calibro di Laurie Spiegel, Suzanne Ciani o Steve Reich, fino ad arrivare a moderni Panabrite o Ricardo Donoso. Un’estetica sonora raffinatissima, dove attraverso l’uso di arpeggi ipnotici vengono modulate delle frequenze che sembrano danzare dentro l’acqua voluttuose e rilassanti.
La cura nella scelta delle tonalità è poi un vero valore aggiunto, ogni brano infatti sembra il perfetto proseguimento del precedente, con una gamma ben ristretta che tende a mostrare tutto il suo splendore nei dettagli e nelle sottili variazioni che vanno a determinare il flusso melodico dell’intero lavoro.
Cinque brani, altrettanti viaggi nel cosmo, a partire dall’incredibile apertura intitolata Ancestral Footsteps, che ha inizio con un arpeggio subito sovrapposto da altri livelli di suono e da un tappeto elettrico che entra per sovrastare in pieno un nuovo assalto melodico. Si perde il conto, gli strati si sommano senza mai risultare ridondanti, neanche quando subentrano i livelli ritmici sparati in mono, uno da destra, l’altro da sinistra, a giocare un effetto disorientante dove è magnifico perdere la testa.
Weaving, secondo brano, gioca tutto sulle frequenze che vanno a modellare un giro armonico composto da pochissime note ed infilato in un loop eterno, ed anche qui la struttura viene messa insieme seguendo un modus operandi che sarà il vero concept di tutto l’album, ovvero quello di fornire un’esperienza d’ascolto quanto più complessa utilizzando sovrapposizioni di livelli sonori nella maggior parte dei casi asincrone al fine di destabilizzare completamente il fruitore di questa musica.
Siamo in territori ambient forgiati da finiture new age, da quell’estetica terapeutica che ha segnato molta della musica d’ascolto che a partire dai primissimi anni ’80 ha poi rischiato di perdersi nel vuoto diventando una pericolosa attrazione commerciale.
Il suono della chitarra, elaborato, disteso, proiettato in questa dimensione fuori dal tempo caratterizza le progressioni armoniche di Words Came After Music, titolo piuttosto esplicativo che calza a pennello col forte messaggio musicale contenuto nel brano, una sorta di emersione, un riprender fiato, per poi reimmergersi nelle acque profonde e buie di In the Shadow of the Workhouse, autentico monumento al suono cristallino ed ipnotico dell’elettronica in purezza.
Silver Threads chiude il lavoro con 10 fottuti minuti dispiegati in un crescendo che parte con un’atmosfera ambient isolazionista e glaciale per poi accendersi su corde vibranti che preannunciano tempesta…Ed alla fine arriva, tenuta a bada per tutta la durata dell’album, ecco esplodere una violenza electro dal forte piglio funk, un incantevole tributo all’universo drexciyano che mette il punto su uno degli album più belli dell’anno. C’è tutto quello che serve.