La cosa intrigante, ascoltando Lee Gamble e il suo nuovo album Koch, è quanto suoni totalmente fuori contesto oggi. Cioè, potrei dire che suona datato per un certo mood digitale nelle atmosfere (che suona in verità piuttosto banale e patetico come preambolo) ma soprattutto che ci si sente un ottimo incipit di quel che (scommetto) accadrà su diverse sponde dell’underground più o meno dance a breve: il ritorno ad un elettronica concettuale, psichedelica e ragionata.
Si perché è inutile nascondersi dietro all’evidenza: la stragrande maggioranza dei lavori più interessanti e di quelli più scadenti degli ultimi due anni venivano da sperimentazioni in ambito techno-teutonico, tra fascinazioni per la rinascita analogica e un noise per lo più improvvisato anche da chi fino pochi mesi prima provava a plagiare le campanelle di Pantha Du Prince. Miriadi di artisti dediti allo studio di ambienti funerei e senza appello, tra immaginari di desolazione post-belliche e visioni ballardiane.
Bill Kouligas, che con la sua PAN non ha invece mai intrapreso la via più semplice o battuta nel scegliere le proprie releases, non è caduto nel tranello e ha continuato a deliziarci con lavori di svariata natura: Valerio Tricoli, Dalglish e Rashad Becker sono stati i blockbusters sul versante sperimentale senza dimenticarsi poi dei 12″ a nome Concrete Fence (Russell Haswell & Regis), Black Sites (Helena Hauff e F##X), M.E.S.H. e Beneath che hanno ancora un impatto monolitico sulle mie casse e su quelle di svariati club europei.
E ora ritorna con Koch, ultimo lavoro di Gamble, che riesce nel non semplice compito di unire sia la concettualità che la qualità dei precedenti Diversions 1994-1996 e Dutch Tvashar Plumes in un ben più epico doppio LP diviso su 16 tracce.
Se le ember zones di Diversions mancavano di appeal per la pista e la computer techno di Tvashar poteva a volte suonare ridondante nell’eccessiva sperimentazione (volendo trovare dei limiti a due album nel complesso validissimi) Koch abbraccia entrambe le visioni per farne un percorso di sali e scendi più vicino all’economia di un album IDM che alla drum and bass (e ancora più sensibilmente lontano dagli steccati techno odierni).
Il londinese non si è mai nascosto dietro alle sua passione per la computer music estrema edita da etichette come Editions Mego e Mille Plateaux e il suo approccio ai 4/4 è senz’altro tra i più innovativi e freschi ascoltati di recente: potrà sembrare fuori luogo per qualcuno ma non è così assurdo paragonarlo con la prima (micro) house mutante di Villalobos e tanto altro materiale del catalogo Perlon. Poi che i concetti alla base siano diversi, così come gli obbiettivi artistici, è palese.
Credo ci sia davvero ben poco di referenziale in Koch: persino l’illusione di una vignetta a-là Burial (You Concrete) o l’incedere dub-techno spalmato sapientemente su alcune tracce (Head Model e Caudata) sono magistralmente mixati ad una ricerca sonora mai veramente tracciabile o superficiale, paradossalmente in uno degli album più accessibili di tutto il catalogo PAN. Senza falsi proclami e hype di sorta, anche il miglior lavoro di Lee Gamble, decisamente tra i canditati alla pole di fine anno.