Forse l’estate non è esattamente la stagione prediletta per dedicarsi ad ascolti neri e cupi, ma questo luglio ha decisamente rimescolato le carte, tra temporali tropicali e umori nerissimi degli addetti ai lavori della Riviera.
Finisce quindi che nel momento in cui mi sentivo un po’ più “fuori” dalla mia fase Blackest Ever Black, ci ricasco platealmente e più innamorato di prima. E questa volta non centra niente ne l’industrial, ne la darkwave, e nemmeno Karl O’Connor (oddio, lui centra in piccola parte anche qui, a dire il vero…).
Dalhous, quindi. Un progetto che nasce dalle ceneri del duo Young Hunting per mutare progressivamente nella creatura dell’unico Marc Dall, in un continuo tributo sulla vita e le opere di R.D. Laing, psichiatra scozzese ed intellettuale della Nuova Sinistra durante gli anni ’60.
Concetti di filosofia esistenzialista e sull’emozionalità dei pazienti sono stati i cardini dei concetti “anti-psichiatrici” portati avanti da Laing durante la sua carriera e sono innumerevoli i suoi scritti su malattia mentale e psicosi.
Personaggio afflitto da depressione e alcolismo, con quattro donne e 10 figli alle spalle, muore durante una partita a tennis a 61 anni, in preda ad un infarto.
Fondamentalmente, la figura di Laing si insinua bene nell’immaginario noir e decadente del roster blackesteveriano, eppure Will To Be Well emana una straniante sensazione di liberazione ed estasi, a differenza del primo (forse incompleto) An Ambassador For Laing e di molti altri titoli della label di Kiran Sande.
Come scritto già da altre parti, quello che rende terribilmente affascinante questo album è la sua stessa costruzione: è un album da ascoltare in una seduta, ma ogni pezzo riesce a vivere di luce propria pur alternando tonalità opposte. Parte come partirebbe un album dei Boards of Canada, intro abissale e poi un ritmo spezzato cavalcato da una melodia quasi solare (“A Communion With These People”); ma a parte dividere la patria scozzese con i fratelli Sandison, il progetto Dalhous ha una diversa pasta sonora, tra un ambient etereo e un disagio esorcizzato da ritmi prorompenti, tanto algidi e digitali da scomodare forse più correttamente i mancuniani Autechre.
Senza dubbio il progetto più enigmatico dai tempi dei Raime per l’etichetta, con la grande (e non poco importante) differenza di avere una tavolozza di colori decisamente più grande del duo Andrews/Halstead.
Qualcuno ha scritto di paralleli con i Nine Inch Nails più introspettivi, e se da un lato la cosa mi trova d’accordo, dall’altro mi sembra abbastanza riduttiva: lo stesso Dall ha recentemente spiegato su Resident Advisor di come le iniziali bozze siano state completamente destrutturate e rielaborate in fase di composizione, partendo da semplici melodie e frasi ambientali per finire poi agganciate a ritmi di matrice IDM, stravolgendo di fatto la versione iniziale delle tracce, senza un determinato mood prestabilito.
Ne sono un chiaro esempio pezzi come Thoughts Out of Season e DSM III, i cui incessanti ritmi sono compressi tra onde circolari di pad distorti ed eterei. Molto più associabili al primo LP dello scorso anno sono invece pezzi come Abyssal Plane e A Communion With These People, con quello swing quasi jazzato e una campionatura che si divide tra sassofoni e bassi reali.
Tanto è fuori dai canoni in cui siamo soliti inquadrare la Blackest Ever Black, tanto ne è uno dei lavori più rappresentativi: le vignette quasi ipnagogiche di Someone Secure e Function Curve potrebbero essere anche outtake del primo Oneohtrix Point Never, eppure suonano perfette nell’economia di questo disco che emana più luce di quella che realmente contiene, tra tematiche di disagio esistenziale e progressioni catartiche.