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Greatest Pills /

Biosphere Dropsonde

  • Label / Touch
  • Catalog / TO:66 LP
  • Format / Vinyl
  • Released / 09/2005
  • Style / , ,
  • Rating /
    9/101
Biosphere - Dropsonde

A caduta libera, ma non in cerca di uno schianto. “Dropsonde” (2005) di Biosphere prende spunto dal dispositivo progettato dal National Center For Atmospheric Research (NCAR) del Colorado per raccogliere dati termodinamici attraverso sensori. La sonda, dotata di paracadute, trasmette via radio quanto si verifica nel cuore pulsante, ad esempio, di una tempesta tropicale.

Non necessita di particolari presentazioni Geir Jenssen, annoverato di diritto tra i pionieri della musica ambient contemporanea. In “Dropsonde” si è divertito a volare a modo suo, inseguendo strati di suono e valicando i confini della delicata copertina opera di Jon Wozencroft, il fondatore della Touch. Oltre l’aria, quel che resta è musica. Elettrica.

L’apertura del lato A è straordinaria. Frammenti field recordings come base per un’accennata intro, poi batteria in loop, accenni drone e note di tastiera ridotta al minimo: è la formula vincente. Il ritmo di Birds Fly By Flapping Their Wings è ipnotico, a tratti meditativo, ma soprattutto vivo, una sorta di sperimentale mix ad alta quota tra minimalismo e jazz d’altri tempi.

Le calde tonalità dei colori sfumano rapidamente quando subentra Fall In, Fall Out, costruita con una base di crepitii catturati da dischi in vinile, puri glitch digitali e un rullante marziale che scandisce il tempo. Un altrettanto incalzante drumming, tanto magnetico quanto tribale oltre la metà della traccia, diviene l’epicentro di Daphnis 26.

Per l’ennesima volta, Biosphere esibisce insolite capacità compositive, destinate poi essere a messe in mostra anche nel successivo “N-Plants” (2011). Il norvegese, con alle spalle una lunga carriera, conferma così la sua personale deriva verso altre sonorità, in apparenza distanti da quelle algide degli esordi, ma simili in termini di architetture, schiette e sghembe.

Registrazioni dal vivo sulla cima del monte Cho Oyu, al confine tra Cina e Nepal, iterazioni siderali ideali per appagare diversi stati d’animo e incursioni fusion capaci di evocare il Miles Davis dei primi anni Settanta: all’ottavo album non arriva mai tardo il momento in cui è necessario osare, reinventando sé stessi e ridefinendo il proprio agire in studio.

Il lato B è, infatti, maggiormente orientato sul fronte downtempo, da esplorare con curiosità. Ad esempio, Altostratus sembra un ammasso organico di pulsioni tutte elettroniche, cinematiche, incerte, timide come lo scorrere di una nuvola passeggera nel buio della notte; mentre Sherbrooke la squarcia in un istante attraverso uno sciame di lucide ripetizioni.

Gli ultimi sei minuti sono, infine, propri di un’esclusiva della versione vinile dell’album, in seguito pubblicato anche in formato cd con ulteriori sei corposi brani. In The Shape Of A Flute segna, invece, il ritorno al vibrante approccio iniziale, con flauti e trombe come nuovi elementi di rinforzo, utili nel segmentare al meglio un’atmosfera ai confini dell’onirico.