Non esisterà mai più un periodo illuminato come il decennio iniziato con il 1990 per quel che concerne la techno e l’ambient. Possiamo mirare all’ottimismo finché vogliamo, ma razionalizzare talvolta è bene, e razionalizzando vien solo da mettersi li e scavare, tirar fuori le unghie per affondarle nel terreno traendone nutrimento fin quando saprà darcene. La parola d’ordine, lo abbiamo ripetuto fino alla noia, è libertà. Gli schemi vanno giù, gli obiettivi sono semplici ed onesti, le menti sgombre da quel bestiale concetto del “devo essere e devo diventare”. La musica vissuta come qualcosa che possa veramente dar senso alla vita ma in maniera pulita, nulla a che fare con le questioni materiali.
Conosco questo album da una vita, e credo d’averlo ascoltato centinaia di volte, e la cosa buffa è che ho capito che il suo autore fosse Bjorn Torske soltanto di recente, in una di quelle strambe triangolazioni di Discogs che portano sempre a galla tutto, per fortuna o per disgrazia ce lo dirà il tempo, fatto sta che per me apprendere che tale capolavoro potesse esser frutto di un producer che avevo sempre associato a ben altre sonorità è stata una sorpresa non da poco.
Remain è semplice genialità. E’ la fotografia di quel preciso momento in cui tutto va bene, è Torske che se ne sta nella sua natia Norvegia e nella maniera più limpida ed innocente fa musica. Ed è lui stesso a confermarmelo dopo un breve scambio di email sull’argomento.
“Se devo essere onesto non c’era un concept preciso dietro la stesura di Remain, se non la mia enorme passione per la techno e la curiosità nel voler provare ad assemblare un album vero e proprio.
In quel periodo avevo già rilasciato un paio di singoli con la Djax-Up-Beats, così quando l’idea ha cominciato a prender consistenza ho trovato naturale pubblicarlo proprio con loro. Credo sia stato uno dei primi album che hanno pubblicato, e Saskia Slegers, boss della label, mi disse che l’approccio melodico di Ismistik poteva essere la chiave giusta per arrivare ad un album. Loro in quel periodo erano conosciuti perlopiù per tracce ripetitive in pieno stile Chicago.
Il setup con il quale ho prodotto l’album era veramente semplice. In quel tempo la registrazione su hard-disk era ancora molto costosa ed appannagio soltanto di grandi studi, così tutto fu basato su un controllo midi da Cubase installato su un Atari ST-1040 e gli strumenti che avevo a disposizione erano un Akai S 1000HD, una Roland Juno 106 e la Yamaha DX-100. Tutto fu spedito dentro un mixer Boss BX-8 e registrato infine su DAT per esser spedito ad Eindhoven alla Djax.
Gli unici effetti utilizzati furono creati con un pedale Boss digital delay. Se ascoltate attentamente i brani vi accorgerete che non ci sono dei veri e propri riverberi utilizzati. Gli effetti flanger sono soltanto dei brevi delay.”
E’ bene innanzitutto ricordare che la versione stampata su CD contiene undici brani contro gli otto della versione su doppio vinile. E che il brano più ispirato dell’intero album: Absence, è contenuto soltanto nella prima. Quindi inutile sottolineare ma, doppia copia. E credo vada letta proprio nel dna della Djax-Up-Beats la scelta di lasciar fuori un tale capolavoro (in quel tempo così distante dalla loro formamentis), dalla versione su plastica nera. E sono proprio quegli iniziali undici minuti a regalare l’immortalità ad un disco che partendo dall’ambient a circumnavigato la techno e l’house con grande attenzione.
Absence è una costruzione lenta in piena estasi ambientale che cresce man mano tra delizie new age e morbidi tappeti melodici fin quando gli arpeggi subacquei incontrano una nuova acidula incursione di synth ballando su di un downtempo da leggere alla voce classe pura.
Dopo questo incredibile viaggio esplode un caldo groove house che prende il titolo di Woodvibe, con il basso corposo a gestirne la dinamica mentre gli innesti aciduli rendono frizzante il raddoppio del piano ancora una volta con grande eleganza. Orange Peel strizza l’occhio a certa uk in chiave BOC ma con urgenza ritmica più rozza e graffiante. Running Water introduce un alone di misteriosa fragranza orientale in una stesura che avvicina Torske alle psichedeliche visioni degli Orb. Cassis si chiude in un tunnel techno dal sapore deep con un taglio cibernetico sui suoni. Daybreak torna in ambient con un fantastico storytelling da pianeta rosso mentre Bulb è uns bolla warpiana che arriva intatta ai giorni nostri.
Lo avrete capito, sembra quasi non esserci logica, o almeno di questi tempi si rischierebbe di esser tacciati per produttori “minestrone”. Bene, ecco dove risiede la libertà espressiva, nel poter elaborare le proprie idee qualsiasi sia la direzione da intraprendere, se poi a tutto questo aggiungi del buon gusto e la giusta capacità di esecuzione, hai l’insieme degli ingredienti necessari a produrre qualcosa che rimanga nel tempo.
Remain è un disco scolpito nella pietra, è li e continua a comunicare in maniera limpida e libera, ed è un disco che chiunque dovrebbe aver il piacere d’ascoltare.