Va bene: un pò pallosi, ma efficaci. E comunque innovativi per i loro tempi.
Ora, nel cosiddetto terzo millennio, questo termine ha assunto un significato nuovo. Inquietante.
E’ diventato sinonimo di quella specie di techno-house da club utile per non spaventare le ragazze ed i proprietari dei club del pianeta.
Insomma una versione borghese ed addomesticata del camaleonte sonoro che alcuni ispirati ragazzi di Detroit e Chicago misero in piedi verso la metà degli anni ottanta.
Dove lì si parlava di rivincita sociale e di fatica a trovare gli spazi giusti per far sentire la tua voce, qui si parla di narcisismo da isole-valtur-dello-sconvolgimento e flash di cellulari in pista.
Dove lì si parlava di ricerca sonora e synth/drum machine rimediati di terza mano, ora siamo al cospetto di una pletora di pseudo produttori capaci solo di usare i preset di Live.
Dove lì si parlava di club ricavati in spazi che nessuno voleva usare, qui si parla di ‘cubi’ multimediali dove l’occhio vuole la sua parte prima e più dell’orecchio.
Dove prima l’importante era esserci, ora l’importante era far vedere agli altri di esserci. ‘What happened?’ direbbe Blake Baxter. ‘Who stole the soul?’ direbbe Chuck D. ‘Everything must change’ direbbe Nina Simone ed alla fine è quella che ha più ragione di tutti.
Perché tutto cambia.
Ma almeno cerchiamo di dare a Cesare quel che è di Cesare.
Il concetto di ‘minimale’ non l’ha inventato il venditore di finti trip del Canada, ma un paio di signori di Detroit: Dan Bell e Robert Hood. Quest’ultimo ci aveva anche costruito un disco attorno che si chiamava appunto ‘Minimal nation’, ora ristampato sulla sua etichetta M-Plant.
Compratelo e sentite la differenza.
Ancora oggi non ce n’è per nessuno.