1995, in Inghilterra i teorici della nuova techno lottavano duro per debellare l’insormontabile arsenale rave che trainava l’economia della musica alternativa, tutto un fermento teso a ricondurre l’umanità verso il credo nativo dei padri di Detroit.
Una purezza smarrita nei meandri di un suono duro, ossessivo e per nulla armonioso, creato per favorire l’interazione sballo/ballo, in uno dei momenti chimici più diffusi della storia.
Nacque la Warp, i Black Dog, Gli Orb, Aphex, Autechre, B12 e molto altro ancora, e la techno inglese assunse quindi connotati difficili, che partivano dall’esempio funk d’oltreoceano per giungere in territori fino ad allora inesplorati.
Russ Gabriel comincia ad oliare gli ingranaggi proprio in quel periodo, giocando duro con il suono, tracciando coordinate sempre più articolate che man mano hanno definito un campo d’azione nel quale era ormai impossibile sbagliare.
Era un periodo nel quale produre un certo tipo di musica doveva per forza significare cimentarsi nella scrittura di un album. Non c’era altra strada, ed il suo debutto è tutt’ora una delle esperienze musicali più devianti ch’io possa ricordare.
Apriamo una piccola parentesi, Input Neuron Musique, una label strana, veramente, un’isola dimenticata dove sono sotterrati quattro inestimabili tesori. Una di quelle etichette che se la meritocrazia fosse un riconoscimento reale dovrebbe avere più o meno i soldi della Warp.
Ed invece “pluf” inghiottita da chissà quale vortice e lasciata a memorie che fin’ora non hanno reso merito.
Voltage Control colpisce sin dalla foto di copertina, uno splendido bianco e nero raffigurante un uomo in camicia e cravatta intento ad armeggiare su furiosi synth, offerta dal “Museum of Synthesizer Technology”, e diventa immediatamente incandescente per via dei nove minuti e dieci secondi più elettrici della storia, quelli di “Rainforest”, un’autentica giungla dove sembra che ogni ramo ed ogni foglia siano percorsi da cariche d’elettricità che sono autenci “schiaffi” funk sintetizzati.
Qualcosa che sembra non aver fine, se non nel finale, quando un buquet di colorati suoni analogici sale facendo defluire il sovraccarico energetico.
Russ Gabriel è un eclettico, riesce ad estendere il suo pensiero verso le forme più disparate, ed è grazie a questa sua versatilità che l’album viaggia provocando stupore continuo, già dalla successiva “Tokio Sun” infatti quella forza elettrica viene applicata su un battito sconnesso che segna l’ingresso in scena della visione techno dell’artista, in un quadro minimale ruvido e fortemente incline ai nuovi disegni made in uk.
“Airborne” taglia il cielo in uno squarcio verticale che scorre negli anni e tra gli stili, da un’ossatura house ad un portamento funk e quindi techno, per poi perdersi, nel volo, in un’eterea scia che lascia intravedere tutto lo splendore ambient che ha irradiato di luce le domeniche post/rave degli audaci avventori inglesi.
Un capolavoro di ritmo e melodia che dà il via ad un terno dance assolutamente avvincente, segue un mostro techno/dub come “Alpine Air” ed un giocattolo iridescente dal titolo “Electric Field”.
Ricordate John Beltran? Ne abbiamo parlato poco tempo fa, ora, andate a raccogliere qualche lacrima perché ne avrete bisogno ascoltando “United Nations”, synth intergalattico in solitaria tra i bagliori delle stelle. Autentica techno da sogno.
Non abbiamo finito, c’è ancora un capolavoro electro come “Joachim’s Hour” ed il saluto finale con “Pat’s Cat” che ci tende la mano mentre noi, inevitabilmente, veniamo balzati in avanti verso un futuro che comunque ci consente di voltarci riconoscenti ad ammirare dietro le nostre spalle.