Non è una di quelle cose imprescindibili, pochi lo conoscono, anzi che io ricordi, nessuna persona di mia conoscenza me ne ha mai parlato, eppure, Rolling Thunder di Stranger ha qualcosa di speciale nella quale ricorro con costanza da anni a questa parte.
Un disco concepito nella metà degli anni ’90, frutto dell’esperienza di un musicista che si è sempre mosso sotto banco, Ian Tregoning. Uno che non ha mai avuto un punto d’appartenenza, perso tra house, techno, acid ed ambient.
Lo ricordiamo dietro una perla house come Bugged Out dei Murk, poi in vari piccoli progetti senza alcuna importanza nella storia di tutte queste cose.
Rolling Thunder è uno strano fungo, l’unico album prodotto dall’uomo, in un (forse) inconsapevole stato di grazia, un disco che ha mantenuto intatto tutto il suo fascino negli anni, fin forse a migliorarlo con il tempo.
Tutto ha inizio con 10 minuti di musica che prendono il titolo di “Vesuvius (molten path)”, un brano che se ascoltato la prima volta in questi giorni vi farà sicuramente gridare a Redshape. Tante sono le similitudini nell’utilizzo di ambientazioni noir analogiche ed utilizzo della bassline in maniera così descrittiva e sotterranea. Un incredibile stesura tra lande ambientali costruite su droni e temporali notturni che termina proprio per mezzo di una 303 malvagia e rotolante incalzata da cassa e piattini, tutto fino all’ancestrale pausa centrale, preambolo della successiva apertura deep house tra piccoli giochi di prestigio, meraviglie elettroniche e ribollir di bassline. Era il brano perfetto, è il brano in cui è bello potersi rifugiare ancora oggi, in quegli attimi di insicurezza che hanno soltanto bisogno di un conforto sincero.
C’è un’altra cosa stupenda, ed è proprio in chiusura, si chiama “Paola’s Element”, ed è semplicemente la versione romantica di quell’apertura descritta nelle righe precedenti. La melodia mantenuta intatta e posta in primo piano, una serie di accenti incastrati qua e là, piccoli mattoncini vocali, gocce di piano e lamenti di bassline, quello che serve a toccare le corde più nascoste, a far emozionare.
Doveva esser veramente ispirato, e questo si può capire bene ascoltando il corpo centrale del lavoro, incentrato tutto sulla melodia in chiave downbeat, in particolare in brani di rara bellezza come Saturn Uranus, Etna, Arabia e Watchman, vere descrizioni ambientali di una raffinatezza pressoché immortale che donano al lavoro un fascino dai toni scuri, quasi notturni. O ancora “Lost Pyramid”, una perfetta colonna sonora per un thriller oscuro giocato tutto sulla suspance.
Poi c’è la parte ritmica, quella di “Sputnik”, “Voice of Energy” e “Dreamhole”, brani che evidenziano come l’artista sia stato comunque influenzato (o abbia voluto sperimentare) soluzioni all’epoca molto vicine all’estetica britannica, forse con l’unica eccezione in Dreamhole che meglio si contestualizza in una rivisitazione dai toni vintage dell’epopea balearica di un decennio prima.
Fortunatamente c’è, nel bel mezzo del cd, un brano bruttissimo: “Shadow Of A Rocket”, un concentrato di tamarragine techno ad alta velocità che vi farà saltare dalla sedia e chiedervi cosa caspita gli sia passato per la testa in quel momento.
Di Ian Tregoning ci rimane questo, le poche notizie reperite su web ci danno l’uomo in viaggio in angusti territori brasiliani perso tra reportage fotografici e, credo, poca, pochissima musica. Poco male, continuo a tener stretto il mio tesoro.