Detroit, sempre in mezzo quando si parla di techno, fin troppo presente oggi, usata come merce da banco da astuti promoter pronti a cogliere lo scialbo vociare di memorie troppo giovani e soprattutto troppo poco attente per poter essere nel giusto. Eppure Detroit qualcosa è stato, mi correggo, Detroit è semplicemente tutto. E’ la radice di un pensiero rivoluzionario, è la voce di un movimento che ad un tratto ha provato a decodificare il futuro, è un grido di saggezza che ha sempre predicato il rispetto per il passato, è quindi coscienza. Ascoltare la musica techno prodotta a Detroit nei primi anni novanta significa esser disposti ad accettare tutto, non solo raffinati, cosmici flussi sonori, ma anche elementi di rottura, passi falsi, suoni non convenzionali e rozzi. Semplicemente perchè in quel tempo si stava tentando qualcosa che non c’era mai stato prima.
L’Europa dopo il primo momento di smarrimento misto ad euforia ha cominciato seriamente a studiare il fenomeno, se leggete le nostre pagine avete avuto modo di imbattervi in alcune delle più belle storie techno del vecchio continente, ed uno degli artisti che ha saputo tradurre, in una maniera che potrei definire fedele, il suono di Detroit è sicuramente Steve Rachmad.
Dj e produttore oandese colto dalla malattia in età giovanissima (si narra abbia cominciato seriamente ad acquistare vinili a dodici anni), Rachmad ha passato gran parte dei novanta a girovagare tra etichette e progetti vari alla ricerca di un suono che potesse riflettere quello che era il suo amore per la techno. Un suono che già agli albori, in alcuni dischi per la ESP a nome Black Scorpion, mostrava chiare influenze soul mascherate da una facciata arcigna allora molto in uso.
Qualche anno prima di arrivare all’album. Siamo sulla 100% Pure, etichetta olandese fondata da amici di Steve e nel 1996 arriva “Secret Life Of Machines” firmato con il suo pseudonimo Sterac, un album brillante, non c’è che dire, brani che presi singolarmente rivelano un potenziale infinito nelle mani del produttore, ma che nella visione d’insieme fanno qualche richiamo di troppo a scene molto in voga in quegli anni come la techno inglese e certa electro proprio olandese.
Passano un paio di anni ed ecco giungere il secondo lungometraggio: Thera.
Eccola, Detroit, una congiunzione astrale di elementi presi in purezza ed elaborati dalla mente di Rachmad per renderli nettare e linfa nuova dentro il suo suono. Thera è il disco che lega in maniera indissolubile l’uomo al suo sogno.
Un disco di techno melodica con tutti gli ingredienti del caso: grooves micidiali sempre a braccetto con meccaniche funk, tastiere angeliche che nella prima metà dell’album aprono i reattori al massimo per un decollo spassionato ed intenso, bassi e ritmiche assassine che ruotano concentriche stringendo una morsa nello stomaco da togliere il respiro, geometrie perfette tra gli strati e gli elementi e poi la caratteristica finale, quella che va oltre ogni tecnicismo, quel senso di trasporto che soltanto la musica ben composta ti sa dare, quel filo conduttore non tangibile tra i brani, un evoluzione naturale che riesce a farti perdere il filo, sei al secondo o all’ottavo brano? Non lo so, ma se questa è la techno sono capitato in un gran posto.