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Amo Venezia, odio Venezia. C’è moltissimo da dire sulla laguna ma, al di là delle descrizioni storiche, naturalistiche e morfologiche, rappresenta per me una dimensione di fuga dal caos del turismo di massa del centro storico. La laguna è il lato B di questa faccenda.
Le barene, le velme, i canneti, le isole abbandonate, gli edifici in rovina. Molta malinconia, una condizione comune a tutte le stagioni, ma la laguna è bellissima d’inverno. Io e mia moglie abbiamo una barchetta, con quella esploriamo, facciamo il bagno, peschiamo molluschi.
Conoscere i fondali è come conoscere il proprio io. Sommerso. O duro e compatto come il tipo di fondale ‘solèra’ dove, in genere, non vi cresce vegetazione e la sabbia è ricchissima di frammenti di gusci e di conchiglie. La breve narrazione di Enrico Coniglio su 13 riparte da qui.
Il 10” intitolato “Solèra” (2016), e ugualmente limitato come il precedente a un pugno di copie, continua a far luce su quel rapporto d’amore tra l’artista, non a caso membro dell’Archivio Italiano Paesaggi Sonori (AIPS), e i luoghi che più lo affascinano. Suoni inclusi.
Era una mattina di maggio del 2010. C’era una nebbia assurda, tutta la città era totalmente invisibile. Esco di casa dopo aver brevemente progettato un ‘field trip’ ed eccomi pronto con il mio equipaggiamento, microfoni binaurali, idrofono e un registratore digitale portatile.
Ero a bordo di una motonave, tra mare e laguna. Di quella giornata, ricordo una grande solitudine, così come la sensazione di star bene, di vivere un’esperienza unica, nella sua ordinarietà, assai intima. La nebbia così fitta fa quest’effetto.
Echi lontani sul lato A. Un battello in avvicinamento. Il suo motore è acceso e diviene la chiave di volta di Solèra (Part 1). Sbuffi, fruscii, le pale di un’elica che non da tregua. La pioggia sul tetto e, poi, un gran baccano. Distorsioni soniche s’inseriscono in un ambiente già abbastanza saturo.
La nuova stratificazione in atto diviene un complesso insieme di rumori, spesso assolutamente discordi, ma capaci di creare una sorta di ritmo alternativo. Una composizione che, così come nel precedente “Astrùra” (2016), s’interrompe quasi senza alcun segnale di preavviso.
Anche Solèra (Part 2) sembra prendere le distanze da quell’atmosfera sorniona del precedente lavoro. L’inizio è tutto in salita, o meglio, è collocato proprio nell’occhio di un temporale. Un rumore imperioso, supportato da costanti raffiche di vento, emerge con vigore dai solchi del lato B.
Il cigolio dei cardini di una porta è stridente. Una volta chiusa, c’è solo acqua che cola. A diverse intensità. Un barlume di aria e luce filtra allo scemare della tempesta. Alcuni oggetti vengono spostati da una superficie all’altra. I tuoni, sempre più frequenti, non fanno più paura.
Sovrapposti a un quasi unico segnale acustico, divengono la colonna sonora dell’ultimo minuto e mezzo. La tensione si allenta. Non resta che un flebile suono, continuo e destinato a esaurirsi. Field recording del genere sintetizzano squarci di vita. E ne colgono le sfumature più struggenti.
I love and hate Venice. There’s a lot to say on the lagoon but, beyond the historical, naturalistic and morphological descriptions, is for me an escape dimension from of historic center mass tourism chaos. The lagoon is the B side of this matter.
The salt marshes, the mudflats, reed beds, the abandoned islands, the ruined buildings. A lot of melancholy, a common condition in all seasons, but the lagoon is beautiful in winter. My wife and I have a small boat, with that we explore, take a bath, go fishing for molluscs.
Knowing the seabed is how to know one’s self. Submerged. Or hard and compact as ‘solèra’ seabed type, where, in general, will not grow vegetation and the sand is full of shells and seashells fragments. The brief narration of Enrico Coniglio on 13 starts again from here.
10”’ titled “Solèra” (2016), and also limited as the previous one to a handful of copies, continues to shed light on love relationship between the artist, not surprisingly member of Archivio Italiano Paesaggi Sonori (AIPS), and the sites that most fascinate him. Sounds included.
It was a morning in May of 2010. There was an absurd fog, the whole city was totally invisible. I leave home after briefly planned a ‘field trip’ and here I am ready with my equipment, binaural microphones, hydrophones and a portable digital recorder.
I was on board a ship, between sea and lagoon. Of that day, I remember a great solitude, as well as the feel of feeling good, of live a unique experience, in its ordinariness, very intimate. The fog is so thick makes this effect.
Distant echoes on side A. A boat approaching. Its engine is turned on and becomes the keystone of Solèra (Part 1). Puffs, rustles, the blades of a propeller that is relentless. The rain on the roof and, then, a lot of noise. Sonic distortions are inserted in an already quite saturated environment.
The new stratification in progress becomes a complex set of noises, often absolutely different each other, but able to create a kind of alternative rhythm. A composition which, as well as in the previous “Astrùra” (2016), ends almost without any warning signal.
Even Solèra (Part 2) seems to distance itself from that previous work sly atmosphere. The beginning is all uphill, or rather, is placed right in the eye of a storm. An imperious noise, supported by constant winds, emerges vigorously from the grooves of side B.
The squeak of the door hinges is stark. Once closed, there is only water dripping. A different intensity. A glimmer of light and air filters during the declining storm. Some objects are moved from one surface. Thunders, more and more frequent, no longer afraid.
Overlaid on an almost unique tone, become the soundtrack of the last minute and a half. The tension eases. All that remains is a faint sound, continuous and destined to finish. Field recordings of the genre synthesize glimpses of life. And take its most poignant shades.