Conosco Federico anni fa, non aveva ancora 18 anni, da subito mi colpì la sua passione smodata per l’universo Drexciyano, più orientato al post, ovvero ai progetti dell’alieno Mueller, e più in generale all’estetica Helliana legata al colosso Gigolo. Federico cresce e comincia a produrre musica, oltre a cimentarsi con le arti visive, ci perdiamo di vista, e non immaginate il mio stupore nell’aprire giorni fa l’homepage della Clone Records e trovare un suo disco in prima posizione, pronto ad essere acquistato.
La storia è questa, e ha dell’incredibile, Federico confeziona un favoloso Ep che non sa come pubblicare, cerca, invia, chiede, ed a farsi vivo è proprio lui, Heinrich Mueller, torna a farsi uomo ed aiuta Federico a trovare una label sulla quale pubblicare il suo lavoro, salta fuori la Wémé, non l’ultima della lista ma un’etichetta che ha visto passare nelle sue fila gente come Cylob, Global Goon, Syntheme, Ceephax e non ultimo Dj Stingray, dapprima in solitaria, poi con l’ex compagno d’avventure Mueller.
L’Ep prende il nome di Perfido Incanto, ed è composto da quattro brani che sono quanto di più vicino ed emozionante sia stato al momento tentato per avvicinarsi alla maestria creativa espressa dall’ex Drexciya in progetti come Arpanet o Dopplereffekt.
Già dalla traccia d’apertura, “Der Prozess” è chiara la matrice electro del lavoro orientata più ad emozionare che a travolgere attraverso grasse ritmiche funk. La sua è un’impostazione geometrica e minimale, un’ambiente asettico nel quale far punteggiare note di piano con raddoppi fuori asse ed isolati battiti cardiaci estremamente puliti e puntuali.
“Zykel” apre con una libellula elettronica che ronza in lontananza facendo da preambolo ad un possente intervento ritmico che entra fissandosi in profondità e scandendo i tempi di un’incredibile brano sottoposto continuamente ad incursioni melodiche che sono dolci sospiri che cavalcano un’inferno percussivo.
“Selbst” è una manovra di organo, metalli preziosi e piatto elettronico, che mette in evidenza l’approccio freddo, quasi glaciale in fase compositiva, non ingeneroso in fatto di melodia, ma scarno e deciso nel dosaggio degli elementi da metter in gioco.
Chiude “Lascia ch’io pianga”, apertura con un suono di piano quasi amelodico poi raddoppiato con un tono più ruvido ed angolare ed infine raggiunto da un battito metallico che a più riprese entra in scena togliendo l’attenzione dal giro di piano che nel frattempo ha assunto cadenza ipnotica.
Un esordio eccezionale, speriamo di veder presto un seguito, a Federico spetta il duro lavoro di togliere qualche referenzialità che al momento è valore aggiunto ma che in futuro dovrà tramutarsi in tratto distintivo ed esempio da seguire.