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Single Reviews /

Redhead The Machine

  • Label / Rekids
  • Catalog /
  • Format /
  • Released / Nov 2010
  • Style / , ,
  • Rating /
    8/101
redhead

La blackness più pura. Un lungo viaggio nelle intercapedini più profonde della musica nera.  
Così si presenta Redhead, nuovo moniker di Matt “Radio Slave” Edwards che con questo EP  inaugura un progetto sperimentale e trasversale tra elettronica, arte e cinema underground.
In “The Machine” Edwards seleziona, ricicla e fonde assieme i tribalismi di tutto il pianeta. Un crogiuolo di voci, suoni e ritmi primordiali che riconducono alle radici più sotterranee a cui da sempre è legata l’anima della musica dance tutta, dall’ house alla techno, dal reggae al dub.

Di assoluta bellezza la prima traccia d’apertura. “Continental Drift” è l’approdo ad una baia selvaggia del profondo Sud dopo una lunga tempesta in mare aperto. Un onda lunga e costante di morbidi riff e languide percussioni accarezza la mente ed il corpo per oltre tredici minuti di ambient intensa e suggestiva.

“Opening Ceremony (Fuse)”, è house fatta di carne e sangue. Quattordici minuti di sudore e lacrime. Percussioni, conga e bonghi per una ritmica tribale che conduce in uno stato di danza psichedelica, tra balli propiziatori della gente d’africa, urla e lamenti di guerra degli indiani americani, liriche e voci bianche dei cori gregoriani. Un inno mistico, sovrannaturale, un canto dell’anima alimentato dai ricordi più reconditi della genesi spirituale dell’uomo che fa e che si nutre di musica dance.

Segue la psicotica e frustante “Leopard Skin” che con il suo andamento sincopato ci porta in una giungla di belve feroci dove suoni sibilanti si affacciano sul battito martellante dei tamburi.
“Spell Bound” è l’atmosfera spettrale che si respira in attesa di un sacrificio voodoo. Un lamento in sottofondo da far rabbrividire anche il più estremo Carpenter ed una serie di synth tetri ed ululanti ci fanno piombare nell’oscurità più misteriosa mentre bassi e batteria scandiscono all’infinito il macabro spettacolo.

Con “Talking Dolls” si ritorna al ballo più spietato. Un potente loop rotolante ed una cassa piena e solida danno l’incipit alla seconda monumentale traccia house dell’ep. Voci sciamaniche fuori campo si insinuano in un ritmo serrato che non da tregua, per otto interminabili minuti di pathos a prova di cuore ed artiere.
La tensione non cala con “Root People” dove una mistura indistinguibile di clap, hit hat e voci negriere danno l’impressione di trovarsi spalla spalla in gruppo polveroso e saltellante di guerrieri africani in procinto di partire per la caccia della notte.

House nera come la pece ed intrisa di tribalismo ed afrofuturismo, pensata e creata dall’immenso estro di Matt Edwards, bianco ed anglosassone fino al midollo. Ma questo dettaglio non è altro che l’ennesimo dei miracoli che la musica può fare mentre gli uomini sulla terra arrancano nella banalità del quotidiano.

Nel frattempo è già partita la caccia al prezioso vinile.

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