La Inky Blackness è una label con base in Inghilterra, due release pubblicate nel 1999 e nel 2003, entrambe di Interloper, poi il silenzio. Sulla pagina Discogs della label possiamo leggere “Publishing & production for TV/Film/Games”, quindi con buona probabilità i fondatori dopo aver appurato che con i dischi non si campa hanno ben pensato di far fruttare in altra maniera la loro passione per la musica. Tutto ok, di storie così ne conosciamo a bizzeffe.
A sorprendere invece è il ritorno della Inky, sul finire del 2012, con un doppio vinile incredibile prodotto da quello che inizialmente è sembrato un neonato ensemble: Magnetik North.
Scopriamo poi, con non poca meraviglia, che il gruppo è capitanato da una leggenda vivente come Jaki Liebezeit (lo storico batterista dei Can) e da Ian Tregoning, musicista che io stesso definivo “Uno che non ha mai avuto un punto d’appartenenza, perso tra house, techno, acid ed ambient.” parlandovi di quella perla nascosta dei ’90 che è “Rolling Thunder”, prodotta sotto lo pseudonimo Stranger.
Non è dato sapere in che maniera i due sono venuti in contatto, l’ipotesi più probabile è che siano semplicemente vecchi amici.
Non è finita qui, perché dietro le fatiche di un album come Evolver si cela il lavoro di un gruppo di musicisti veri come il bassista Andy Baxter, recentemente insieme ad un maestro come Andrew Weatherall nel suo album come The Asphodells, le percussioni di Lee Harris degli altrettanto leggendari Talk Talk, la chitarra di Joe Hollick dei Wolf People, il piano di Danny Arno, uno dei tastieristi della vecchia scena House, anche con Robert Owens, e, non ultimo un certo Richard Norris (The Grid, Psychic TV, The Time & Space Machine) a coordinare il progetto grafico. Insomma l’avrete capito, un super gruppo.
Dico “quello che inizialmente è sembrato un neonato ensemble” perché poi, navigando sul Soundcloud della label, scopro una serie di pezzi datati 2002, 2006, 2007, un range che da maggior ragione alla qualità delle composizioni ed al livello di affiatamento che traspare dal disco.
L’album è splendido, un lavoro dove musica elettronica ed acustica trovano un bilanciamento perfetto e regalano un flusso intenso, scuro, vibrante. Otto brani, tutti molto lunghi, per raccontare la storia di un incontro inusuale, di un gruppo come non ne vedevamo da secoli.
“Peitsche” apre questo lungo viaggio con undici minuti di tappeti oscuri e percussioni selvagge, un ritmo travolgente e metronomico, un senso di oppressione, battiti in lontananza che ricreano un ambiente tribale, la melodia di alcune corde, l’elettronica nera sullo sfondo, l’oblio.
“Fuck The Napkin” intensifica la morsa, con una cascata di suoni elettronici sullo sfondo, la batteria a scandire con rullante e piatti, le note isolate del piano, il basso che dopo i due minuti fa l’ingresso e trionfa, ancora uno scrosciare percussivo, l’elettricità della chitarra che vibra nell’aria.
“Dron In Koln” poggia su una struttura minimale, con i synth che salgono dal basso mentre la batteria intona il ritmo. Il basso è il protagonista, una suonata grassa e profonda, questa è la melodia, il mood è grigio, nebbia perenne.
“Kings Of The Robot Rhythm” è un breakbeat poderoso, cavernoso. Arpeggi su chitarra, schegge di tastiera ed un corpo vigoroso che si muove in progressione, il tutto con quel senso di coesione praticamente onnipresente.
“Long Way Back” è il capolavoro, note di piano con dolcezza, poi il suono della tromba, una nenia. Cassa tamburo e piatti con delicatezza per un’emozione senza fine.
Poi arriva “notturne” e ci riappacifica col Jazz. La chitarra iniziale accorda la vibra, poi entra potente la batteria ed i drones in sottofondo. C’è un alone di misticismo e psichedelia, c’è l’abbraccio di una notte d’inverno.
“The Shining” è il crepuscolo, un brano ambient dove si rappresenta la desolazione, il suono addensa l’aria, la pressione è fortissima, i synths creano un vortice pericoloso che viene placato soltanto da squarci di piano e chitarra effettati.
“Something in the water” è il capitolo finale, un tormento nelle tenebre più oscure, con quel tappeto infinito e gocce limpide a caderci sopra. Man mano tutto si spegne, a rimbombare è solo il suono dell’organo e pochi, solitari elementi percussivi che ci conducono alla conclusione.
Non c’è mai fine all’oscurità.