Richard Von Der Schulenburg è l’artista che si cela dietro il moniker RVDS; tedesco originario di Bielefeld, viene dalla scena punk rock tedesca, si innamora dei suoni elettronici e inizia a comporli, dedicando spazio alla sperimentazione e cercando di utilizzare al meglio vecchie macchine analogiche dai suoni carichi di personalità e storia; nel 2004 viene invitato a suonare i suoi dischi dal noto dj tedesco Lawrence presso il Golden Pudel Club di Amburgo, di lì a poco sarà eletto dj resident (lo è ancora oggi a quanto ci risulta) e inizierà un interessante percorso di evoluzione artistica.
Von Der Schulenburg è proprietario della label “It’s” attraverso la quale dà alle stampe il disco oggetto della nostra recensione e il grosso delle sue opere (nel 2012 ha pubblicato anche un album dell’istrionico Felix Kubin), tra cui il notevole “Moments”, uscito nel febbraio del 2011 e che è una piccola perla in cui confluiscono e si rimescolano suoni deep, ambient, melodie, acid house e techno di ispirazione americana.
Richard fa parte inoltre di quella scena ubicata nel nord della Germania che guarda con grande interesse e trae grossa ispirazione dai maestri di Detroit e Chicago; una delle label chiave di questa scena è la Laid (costola della più famosa Dial – il nome è scritto al contrario – per la quale sono usciti gente del calibro di Rick Wade, Fred P, Kassem Mosse, Lowtec, Redshape, John Roberts, il nostro Marcello Napoletano e altri), che ha dato alle stampe per RVDS nel 2011 “Moon Oddity”, ep apprezzato da molti dj.
Dopo aver introdotto l’artista, veniamo ora alla sua ultima opera: Arabian Moon, release numero 10 del catalogo It’s.
Il disco è venduto in diversi formati: vinile e vinile in 77 copie numerate a mano con allegata una musicassetta (per completezza vi dirò anche che sono in vendita i files digitali, ma sappiamo che non vi interessano…).
Poggiamo la puntina sul vinile e lasciamo che i suoni ci attraversino la mente.
Sul lato A troviamo Arabian Moon: il brano si apre con una voce robotica che ci dice “walk on acid dunes, follow the arabian moon”, sul quale entra la cassa spezzata a fare coppia dopo qualche secondo con un umore acido che sale dal sottosuolo fino a impadronirsi completamente della scena, entrano poi i pad melodici e ispirati dalla tradizione mediorientale, che con synth e claps costituiscono il tappeto sul quale la bassline acida e velenosa ritorna preponderante, fino ad affievolire i toni e sfumare nella coda del brano tra venti sahariani e il ritorno della voce robotica.
Sul lato B Acid Dunes: un muro ribollente di vibrazioni acide viene spazzato da folate desertiche fino a che un esercito di robot vi apre una breccia e inizia una marcia inesorabile, fiero e possente tra le dune, il suo grido di battaglia è composto di suoni cosmici e colpi di cassa e rullante; travolge chiunque lo incontri e carica di tensione acida chi sa di trovarsi lungo il suo percorso, fino ad esprimere nella coda del brano tutta la sua forza, pronto a conquistare la mente dell’ascoltatore.
L’artista fonde in un unico gioiello suoni acidi, deep, electro, techno, reminiscenze di vocoder anni 80 e melodie orientali, rendendo un tributo agli artisti di Detroit e Chicago, al quale si ispira profondamente per la realizzazione della sua musica.
I Drexciya incontrano Larry Heard, Moritz Von Oswald e Ricardo Villalobos in un caffè arabo e mentre chiacchierano e scambiano le loro idee vengono distratti e rapiti dal sottofondo musicale in cui suonano melodie del deserto.
E’ un ottimo lavoro che sembra portare con sè la somma delle ispirazioni (e delle ambizioni) dell’artista, e che a mio avviso segna un interessante punto nell’evoluzione sperimentale di Richard, che condensa ovest ed est al servizio del dancefloor e dell’ascoltatore appassionato.