In che modo è possibile trovare un denominatore comune fra artisti relazionati con diverse aree ed influenze?
Questa domanda è al principio del lavoro dell’etichetta SVS (Selbstversorgersound), espressione formale di un collettivo di producer di Monaco, attivo dal 2007.
Il nome dato all’etichetta, che in italiano potrebbe suonare come “sound autosufficiente”, si riallaccia all’intento principale dei suoi esponenti: liberarsi da forme precostituite e da legami con il mainstream. Si tratta dunque di un’operazione diretta al sostentamento delle produzioni underground, in cui con fiducia si può inscrivere la nostra etichetta.
Qualcuno, inoltre, forse se ne ricorderà grazie ad un podcast ospitato proprio da electronique.it pochi mesi fa, a cura di Deadbeat. Vi compariva infatti una traccia di Gunther Lause, artista appartenente alla SVS.
In modo coerente coi propri principi ecco quindi comparire il primo vinile di una trilogia denominata “Polythythmic Series” dedicata proprio a sviluppare un connubio tra sound differenti ma accomunati da un elemento originale. In effetti i vari nomi presenti sono impegnati nell’elaborazione di vari stili musicali, dalla Techno minimale alla Dubstep più raffinata e concettuale.
Il denominatore, però, riesiede nel cuore di ognuna di queste tracce: il ritmo o, meglio, il sottile lavoro operato su diversi livelli ritmici di ogni traccia.
In lavori come questo è davvero possibile toccare con mano la passione dei musicisti all’opera. In tutte le 5 lunghe tracce di questo primo vinile, infatti, si riconosce una maestria nella gestione dei suoni e dei campioni che deriva evidentemente dal piacere di lavorare ogni singola frequenza con una cura quasi certosina.
Il primo brano è “Polygon”, di Larkin & the Sky, un eccellente mix di minimal techno con leggere ma notevoli influenze house che danno al brano una dimensione “club”, con progressioni ritmiche incalzanti, sviluppate nell’arco dei diversi minuti. I suoni e i silenzi si mischiano in poliritmie raffinate, componendo un brano quasi meditativo.
Arriva poi il momento di “Wokule”, ad opera di Zaquoir. A mio avviso è la vera e propria perla dell’intero disco: un piccolo gioello dubstep, dove il ritmo dimezzato è sostenuto da campioni di sax e voci eteree, che si perdono fra gli echi e riverbi di microscopici elementi ritmici.
Il terzo brano è un differente remix del primo, dal sapore molto più acido, decisamente più duro e trance: le poliritmie di cui si accennava sono qui esaltate grazie ad un interessante gioco fra il kick ed il basso.
Il brano di Bartellow, “Peruno”, è quasi inclassificabile: si tratta forse del momento in cui più che altrove si apprezza il delicato lavoro di arrangiamento di strati ritmici sovrapposti. La sperimentazione in questo senso diventa sempre più marcata, fino a sfociare in “Wintervirus” di Lukas Rabe: un ritmo semplicissimo viene moltiplicato da un uso oculato di delays che creano un microscopico sfasamento a più livelli. L’effetto è quasi simile a certi lavori di musica footwork.
Alla fine dell’ascolto del disco permane un senso di intimità, un’impressione di sguardo interiore, che nasce forse proprio da quest’attenzione posta sul senso ed il significato del ritmo. Le atmosfere notturne e delicate che vengono proposte contribuiscono ad accrescerne la dimensione. In definitiva, questo primo capitolo della serie promette bene e fa intendere che i prossimi due vinili non deluderanno le aspettative.
Stiamo a vedere.
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