Torna Mike Parker, pochi mesi dopo il full Lustrastions. Di nuovo sulla sua Geophone per un tre tracce che, fedele alla sua ricerca, la porta ulteriormente avanti. La fascinazione rave, l’atonalismo, la chiarezza concettuale e le atmosfere cariche di intensità a stratificarsi in un’esplorazione esistenziale che fa sprofondare.
Apre Full Moon In Winter, clamoroso cristallo di echi, rimbalzi e loop sovrapposti perfettamente, apparentemente immobili e invece perennemente dinamici. Tranne pochi inserti evidenti (come il clap nella seconda metà) dove sembra che niente stia succedendo, al contrario succede tutto. La perfezione formale di Parker non è l’esercizio di stile del calligrafo, fine a sé. L’andamento è incalzante, i suoni aggressivi: il corpo in risposta chiede di muoversi e mentre lo fa rimane incantato dall’ipnosi che lo schianta in una ripetizione che, forse, è la sua stessa gioia.
Vanadis è un rito. Un cuore di tenebra dove una cassa interpreta il quarto in modo straniante, accompagnata da un synth acido in perfetto stile Mike Parker. Sotto intanto, come a distanza, si sentono degli ambienti oscuri, gravi, neri. A volte sono i riflessi di quel synth, in altre occasioni sono degli inquietanti paesaggi pieni di presagi e sicuramente incompromissori per quanto riguarda la personale visione del mondo dell’autore.
Chiude il lavoro, sul lato B del vinile, Vanadium. Ancora sulla linea di Vanadis, ne ricorda l’architettura salvo qualche significativo dettaglio, che poi è dove si gioca il tutto. Qui ci sono più pause ritmiche, la cassa nei tre blocchi non si ripresenta mai identica, gli ambienti sullo sfondo si muovono diversamente. Mentre si balla si festeggia con il pensiero.
L’importanza di un disco così è estetica fino a un certo punto. Il suo spessore sta anche nella riflessione che permette al genere di fare su se stesso, per il modo in cui veicola l’astrazione della techno dal tempo storico in cui essa accade. Nelle mani dell’umanità che ne sarà in grado, è un genere che sempre sarà, perché sempre è stato.