Il 2013 è stato un anno intenso per il misterioso produttore svedese Abdulla Rashim. Due uscite su Semantica, la proficua collaborazione con Varg nel progetto Ulwhednar e 3 EP sulla sua Abdulla Rashim Records.
Aksum, a dicembre, è l’ultimo di questi lavori e ha le connotazioni del crocevia poetico. E’ il disco in solitaria con il minutaggio più alto della sua carriera ed è pure quello più ruvido nella forma. In tutto consta di sei parti.
Sfumando con gradualità le tessiture che lo avvicinavano ai nostri Gigli o Dozzy (certe aperture e digressioni), stavolta dirige il flusso della sua opera in direzione di un primitivismo tanto sciamanico quanto preciso nella suggestione spirituale che riesce a evocare. Il concept rimane quello di sempre, centrato su un’esplorazione paesaggistico-metafisica ispirata all’Etiopia.
Il pensiero immediatamente va a quello Shaman’s Path di Dino Sabatini che a un anno di distanza dall’uscita su Prologue continua a essere un disco esaltante. Ma il parallelismo facile tradisce un diverso approccio alla materia. Simili nella profondità investigativa tra le maglie del buio, ma al contempo differenti nella grana e nella costruzione dell’intero lavoro. Questo è un disco ancora più ripetitivo, febbrile nel suo essere monocorde e unico per la capacità di invenzione nel dominio della riduzione e minimalizzazione degli elementi. Avendo spessore dinamico leggermente diverso, oltre che (appunto) velocità variabili, i brani ruotano tutti praticamente intorno allo stesso tema ritmico.
Tutto si succede in impressioni o memorie di paesaggi che sono oscuri solo perché non ancora disvelati.
L’apertura è affidata a una suite ambientale. Il basso ritmico di Aksum 3 divide perfettamente a metà il lavoro; per il resto il tutto procede lungo un sentiero che sembra inevitabile dover essere seguito fino alle sue estreme conseguenze. Alla fine, la traccia conclusiva (Aksum 6) racchiude in sé tutto il senso di questo stesso percorso, dove all’interno di ambienti apparentemente ostili la foschia si dirada con una gioiosa e intelligente apertura alla melodia. Una cosmogonia millsiana, ma che dalla Svezia guarda all’Africa. In breve, una emozionante sensazione di futuro.
Credo che sia da manuale il lavoro che esercita sull’ascoltare, il quale per la durata del disco si dimentica di se stesso e viaggia assieme a lui. E così si capisce anche cosa Abdulla Rashim intenda quando dice che non si sente di praticare musica “dark”. Perché in effetti qui non si ha a che fare con musica compiaciuta della propria tenebrosità, ma con qualcosa che di più si avvicina a una sorta di imprescindibile percorso interiore.