Storie di musiche “altre” soltanto oggi dal mondo riscoperte. Storie di musicisti che ancora potevano scegliere di fare arte e lavorare con l’arte. Storie di artisti che assorbirono ovunque e sperimentarono in ogni direzione in un momento storico in cui politica e società mostrarono di sapersi veramente schierare.
Valerio Mattioli ci racconta tutte queste storie nel suo libro Superonda “Storia segreta della musica italiana”, edito da Baldini & Castoldi, mettendo il punto a pagina 656.
Un viaggio che va da Ennio Morricone a Lino Capra Vaccina, da Franco Battiato alla comune trasteverina di Musica Elettronica Viva, Dal Piper agli Aktuala e così via. Il tutto narrato come un lungo racconto condito di vive testimonianze e grandi spunti di riflessione.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Valerio per approfondire un po la questione.
Come mai si sceglie di raccontare una “Storia segreta della musica italiana”?
In effetti si è indagato molto sui movimenti che hanno dato lo start alle moderne storie musicali, ma quasi sempre ci si è impantanati nella Disco, nel Soul, nel Funk, nel Jazz od in certa elettronica zona Kraftwerk per intenderci. Tu ci racconti di un’Italia che i più grandi e disparati musicisti hanno citato o tributato ma della quale nessuno ha mai approfondito genesi e gesta.
Oddio, non esageriamo: non è che nessuno abbia mai approfondito le gesta di cui parlo in Superonda – anche se in alcuni casi sì, è vero, ci sono musicisti o intere realtà che tuttora soffrono un “deficit di documentazione”, mettiamola così. Piuttosto direi che – tolto l’enorme numero di testi sul prog italiano, un fenomeno che nel libro occupa una posizione abbastanza laterale – il racconto di quegli anni resta parecchio frammentario, disordinato, quasi sempre appannaggio di ristrettissime cerchie di seguaci. Probabilmente c’è gente che, non so, sulla library music, o sull’underground freak, o sul free jazz italiano, o sulla musica sperimentale di estrazione più o meno “colta”, sarebbe capace di scrivere testi persino più lunghi delle 650 pagine che ho scritto io.
Quello che però ho provato a fare in Superonda è stato legare tutti questi percorsi, cucirli assieme all’interno di una cornice che fosse anche genericamente culturale, sociale, politica e così via. Per capirci: mi interessava parlare di Franco Battiato ma anche di Franco Evangelisti, di Morricone ma anche di Mario Schiano, di Claudio Rocchi ma anche di Piero Umiliani, di Alan Sorrenti ma anche di Alvin Curran… Come immagino saprai bene, negli ultimi anni abbiamo assistito a un enorme ritorno di certi materiali – anzi, in molti casi si tratta di “scoperte” vere e proprie. In un certo senso, Superonda è anche il frutto di questo fenomeno qui: io stesso, senza l’enorme mole di ristampe, retrospettive, riesumazioni ecc, non so se sarei arrivato vivo alla fine del libro.
Immagino che un libro di oltre 600 pagine porti con se una mole di lavoro immane, quanto è stato complesso reperire tutte le informazioni, ottenere i contatti giusti per le interviste e più in generale organizzare poi la stesura dell’intero lavoro?
Alcune interviste vengono da articoli che in passato ho scritto per riviste come Repubblica XL, Blow Up e Vice. Devi considerare che Superonda ho cominciato a scriverlo più di cinque anni fa, era un’idea che mi gironzolava nella testa da tempo… E quindi, se magari nel frattempo mi capitava di intervistare un Franco Battiato, o un Ennio Morricone, o un Patrizio Fariselli… insomma, tutto confluiva nel lavoro che parallelamente stavo portando avanti per i fatti miei, e che alla fine era quasi una specie di hobby, di passatempo domenicale, manco l’avevo proposto in giro agli editori. Per i testi del periodo invece devo innanzitutto ringraziare i tanti collezionisti di vecchi Ciao 2001 e Gong che ci sono in giro, nonché gli anonimi user che ogni tanto caricano vecchi articoli e recensioni su internet.
C’è stato qualche musicista (tranne gli “ascesi” ovviamente) che non sei riuscito a contattare e che avresti voluto presente con una testimonianza nel libro?
Mah, in realtà no, anche perché già così la mole del libro non è indifferente… Poi certo, avrei potuto contattarne diversi altri. Però sai, per esperienza il fatto è: non sempre i musicisti sono le persone più affidabili quando c’è da discutere del loro lavoro, specie se si tratta di materiali di 40 o 50 anni fa. Aggiungi anche che non sempre la mia prospettiva combacia con la loro: per dire, non so quanto Claudio Simonetti (che pure è uno che ebbi modo di intervistare, sempre per XL) sarebbe d’accordo con la lettura che do dei Goblin nel libro. Anzi probabilmente si incazzerebbe pure a leggere certi passaggi.
Ora, per me i Goblin sono un grande gruppo, ma non per le ragioni che indicherebbe Simonetti in persona. Cioè, lui con me insistette molto nel ribadire la natura “autenticamente prog” dei Goblin, proprio nel senso di prog alla Emerson Lake & Palmer; dal suo punto di vista è un’ingiustizia che i Goblin nei circoli prog non siano considerati alla stessa stregua di PFM e Banco, e in un certo senso lo capisco pure. Il fatto però, è che per come la vedo io i Goblin sono infinitamente più interessanti di PFM e Banco. Proprio perché, per motivi anche “contingenti”, fornirono un’interpretazione del prog molto eretica, originale. Alla fine viene difficile proprio chiamarli prog, una cosa che appunto a Simonetti continua a non andare giù – mentre per me è esattamente il valore aggiunto di quel progetto.
Poi vabè, negli ultimi anni – complice anche il lavoro di ristampe e riscoperte di cui si parlava prima – sono spuntate diverse interviste a personaggi dell’epoca, in alcuni casi firmate da amici con un taglio abbastanza affine a quello che potrei avere io. Mi vengono in mente per dire le interviste di Federico Sardo, Antonio Ciarletta o Maurizio Inchingoli a musicisti come Andrea Centazzo, Lino Capra Vaccina, Walter Maioli… Anche questo, è tutto materiale che in qualche modo è “servito” al libro.
Piuttosto, sono molto felice di aver intervistato Claudio Rocchi poco prima che morisse – un evento che personalmente mi ha colto proprio di sorpresa. Lui fu credo il primo che contattai senza altri fini che non la scrittura di Superonda, e senza le sue testimonianze il libro sarebbe stato parecchio diverso. Anche perché Rocchi per me non era semplicemente “un musicista”, ma una delle memorie storiche dell’underground italiano, anche a livello “umano”, se capisci cosa intendo.
Quali sono, a tuo avviso, i movimenti musicali moderni che hanno tratto maggior beneficio dalle idee partorite in Italia in quel periodo?
Non so, ciclicamente c’è qualcuno che riaccende l’interesse su quei materiali, e che da italiano ti fa pensare “ah, ma pensa tu, chissà come ci è arrivato”. Pensa ai vari Steven Stapleton, Jim O’Rourke, Alan Bishop, i Demdike Stare in tempi più recenti… Poi c’è l’influenza che un singolo personaggio come Morricone ha avuto nei campi più disparati, dal dub al post-punk, dal trip hop al post-rock…
La “scuola italiana” (se di scuola si può parlare) non ha quell’aura quasi monolitica che per dire ha la scuola tedesca di quegli anni, col krautrock e tutto il resto; però senza dubbio i suoi echi ogni tanto riaffiorano dove meno te l’aspetti, con risultati anche paradossali. Nel senso: se incontro un musicista inglese o americano, magari è probabile che conosca il primo Battiato o cose ancora più oscure come i Sensations’ Fix. Mentre se invece gli cito Francesco Guccini, non sa manco chi è. E tu vagli a spiegare che in Italia Guccini è considerato uno dei musicisti più importanti di sempre, mentre i Sensations’ Fix non li conosce nessuno…
La “Superonda” era in qualche modo un riflesso della condizione sociale e/o politica che si viveva in quegli anni? Hai tratto qualche testimonianza che ti ha fatto aprire gli occhi realmente su quella predisposizione a sperimentare in maniera creativa?
Sì, buona parte di Superonda ragiona proprio su questo; direi che per metà è un libro “semplicemente” musicale, e per metà racconta i fermenti socio-politici-culturali del periodo. Non solo Lotta Continua, scontri di piazza e stragi di stato, ma anche comuni freak, sottoboschi underground, cultura “pop” come la tv e il cinema… Anche perché, voglio dire: è proprio difficile parlare di, non so, Area, Canzoniere del Lazio o Giorgio Gaslini, e tacere del contesto tipico di quell’Italia lì. Anche se ogni tanto qualcuno lo fa, eh…
Pensi che ad aver influito sia stato anche il florido mercato discografico di quegli anni che in qualche maniera abbia potuto infondere un certo grado di “tranquillità” in alcuni compositori, un facile accesso a strumentazioni, studi ecc… qualcosa che potesse “alimentare” questo diffuso spirito creativo?
Hmm, non saprei. Anzi tenderei a rispondere di no, nel senso che non credo molto all’equazione “mercato florido = bella musica”, altrimenti non si spiegherebbe come alcune tra le più innovative musiche di sempre siano nate e cresciute in periodi di grossa crisi (pensa solo al post-punk, nato in piena recessione del mercato discografico). Però è vero che alcuni fenomeni conobbero in quegli anni un livello di attenzione da parte del pubblico oggi quasi impensabile, e questo in qualche modo ne aiutò la diffusione. Mi viene in mente tutto il seguito che per esempio ebbe il cosiddetto “jazz creativo”, tanto per dirne una. Ma è anche vero che molti musicisti continuarono a operare a livelli eminentemente underground, anche se sì, fa un certo effetto trovarsi i dischi di gruppi tipo i Living Music pubblicati da major come la RCA.
Di contro, c’è qualche tratto, stile, o semplice sensazione che ritieni sia rimasta viva e fresca in qualche musicista del dopo 2000? Una sorta di dna tutto italiano preservato con dovizia?
Eh, domanda scivolosa. Prendi per esempio tutti i discorsi che negli ultimi anni sono stati fatti sulla cosiddetta Italian Occult Psychedelia e sul presunto legame con la scena psichedelica italiana anni 70, con la vecchia library music e così via. Ora, io sono convinto che se domani uno di questi gruppi (molti dei quali per me ottimi) pubblicasse un disco in puro stile Detroit Techno, qualche recensore tirerebbe comunque fuori Egisto Macchi. E magari avrebbe pure ragione, che ne so io? Magari tu stai lì a casa a sentire il disco di un gruppo italiano anni 2000, e c’è qualcosa che ti “rimanda” alle atmosfere italiane di quarant’anni prima, senza che da parte del gruppo ci sia alcun intento in tal senso. Poi è anche vero che molti musicisti italiani rivendicano quel legame lì, specie in ambito elettronico: pensa a tutto il giro MinimalRome, ma anche allo stesso Lory D… Ora, perché mai un maestro della techno tipo Lory D dovrebbe avere qualcosa in comune con un gruppo“prog” come i Goblin? Non lo so, ma effettivamente “qualcosa” c’è. A me questa faccenda del dna non mi ha mai convinto, però oh, hai visto mai…