La ristampa de Il Deserto di Egisto Macchi va analizzata sotto diversi aspetti.
C’è un dato di fatto inconfutabile: il lavoro solista del compositore grossetano scomparso nel 1992 non è mai stato celebrato abbastanza, contrariamente a quello del mitologico ensemble Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza di cui faceva parte. Un avanguardista e sperimentatore che durante il decennio ’70 ha dato vita a musica tutt’oggi inarrivabile. In particolare, la discografia che va dal 1971 al 1975 è un tesoro nascosto che fa storia a se.
I suoi dischi sono stati sempre appannaggio di collezionisti specializzati in library-music, vinili rarissimi venduti a prezzi da capogiro e che per moltissimi anni sono circolati soltanto in questi massonici circuiti le cui dinamiche risultano non esser completamente chiare neanche sotto il regime della rete.
Il panorama della library-music italiana è sconfinato, e le vie d’accesso a questa musica per molti anni sono state affidate al mercatino della domenica e ad oscuri personaggi che hanno accesso ad archivi che ancora oggi continuano a dispensare con il contagocce questi preziosi oggetti.
I blog specializzati prima, la ritrovata via del vinile poi, hanno comunque permesso a molte gemme di quell’aureo periodo di tornare a galla ed avere finalmente la meritata gloria in un tam tam che sta diventando sempre più grande e famelico. Ed è proprio alla gestione di questo “ritrovato business” che mi sento di muovere l’unica critica verso il prodotto.
La ristampa di un disco così prezioso, illuminante e verosimilmente didattico è stata pensata dalla Cinedelic Records in una lussuosa versione che in “soli 2 vinili” sfiora i quaranta euro.
Una cifra che vale il capolavoro, ma che taglia fuori di fatto tutta una fetta di utenza che avrebbe potuto aver accesso a prezzi decisamente più abbordabili se fosse stata pensata una doppia versione di cui una basic e l’altra agghindata a festa.
Il disco, contrariamente allo standard delle library e delle soundtrack di quegli anni, è composto di brani lunghissimi, ed il lavoro della Cinedelic di ristampare i take originali ha fatto si che quasi tutti siano ancora più lunghi delle versioni pressate sulla prima stampa del 1974 per la Ayna.
Nove brani per un intenso viaggio nelle pieghe del soundtracking più illuminato, con il Maestro a dirigere musicisti dal chiaro profilo jazz qui indirizzati verso una sorta di “desertico” (passatemi il termine) approccio che combinato alle frequenze degli oscillatori e ad un processo di percussione molto secco e legnoso sulle note del piano danno vita ad un album che in tutto e per tutto è un faro per tutti gli amanti dell’ambient, ed a voler cogliere della ECM a venire.
C’è quel pathos oscuro ma vivo, quella magica interpretazione delle ore di buio e delle temperature notturne del deserto, quel far vivere gli orizzonti e far tremare l’ascoltatore di una paura buona. C’è un’impostazione classica che rende i flussi elettronici più familiari, mentre le corde metalliche del piano creano tensione e tengono in piedi un ritmo dilatato, antartico ma vibrante.
L’Africa è smembrata, scomposta fino ad arrivare all’atomo, a risuonare sono i suoi silenzi ed i suoi umori più impercettibili.
Il Deserto è un corpo che ha pulsato nascosto per troppi anni, e che mi auguro possa entrare nelle case di tutti in qualsiasi forma. Qui è d’obbligo spendere l’aggettivo capolavoro.