L’Africa nera è qui raccolta e rappresentata servendosi di una delle menti più innovative di sempre, quella di Adrian Sherwood.
L’artigiano Bonjo Iyabinghi Noah alle percussioni mette in fila una di quelle sessioni fuori di testa che mandano in trance Sherwood che dai suoi controlli elettronici fornisce tutta una serie di rifiniture, orli e merletti ad uso e consumo del ritmo. Ad uscirne fuori è uno degli album ritmico/sperimentali più ispirati di sempre, una giungla governata dal ritmo, dalle frequenze dub, dalla psicosi elettronica e dalla predisposizione assolutamente libera alla musica.
Su Sherwood c’è poco altro da dire, se non che ogni tanto è bene riscoprirlo in uno qualsiasi degli innumerevoli progetti ai quali ha preso parte, questo non è altro che un punto nella sua discografia, un punto per noi importantissimo perché cova dei contenuti straordinari, idee che ritroviamo oggi in alcune espressioni di artisti sulla cresta come ad esempio Shackleton o Andy Stott, produttori che a nostro modo di vedere hanno tratto molto da dischi maestro come questo.
Qui c’è di tutto, dal Jazz astrale di “Stone Chant” all’ipnosi minimalista di “Stebeni’s Theme” o ancora le partiture di funk oscuro in “The Race (Part 1)” e le folate sperimentali di “Primal One drop”. Un album perfetto, visionario incredibilmente premonitore, un disco tutt’ora avanguardistico che molto fa riflettere su quel che ora si fa e sul come lo si fa.
Se nel 1981 eravamo capaci di prevedere il futuro, ora che siamo nel futuro non ci resta che tornar a guardare indietro.